Max Manfredi cantautore genovese racconta la sua idea di musica e religione e dà un giudizio sul mondo dei reality show
Max Manfredi, classe 1956, cantautore genovese amato anche oltre i confini nazionali, ha presentato il 5 gennaio 2011 al Teatro della Tosse “la luna nel ghetto”, uno spettacolo di musica e poesia in cui l’incasso sarà devoluto al progetto “Oltre il ghetto” della comunità di San Benedetto.
Max, c’è chi ha affermato: “i cantautori sono la voce del futuro”. Tu che futuro racconti?
Non prendo per buona la premessa. Dire che i cantautori sono la voce del futuro è altrettanto ottuso che retrocederne l’importanza al passato remoto.Certo, quest’ultima posizione è più malevola. Entrambe non tengono conto della realtà, e soprattutto non chiedono il parere degli agonisti, di coloro che le canzoni le cantano e le fanno, ma anche degli ascoltatori, che ne determinano l’esistenza. Io penso che una canzone non abiti il tempo cronologico. Si trova presa in rete fra passato e futuro, fra la realtà e il sogno. La canzone è obliqua rispetto al tempo. Io ricevo richiami dal passato e dal futuro, qualcosa mi segno, qualcosa commento da questa postazione precaria ma ingombrante che è il presente. Quello mio, quello che condivido con gli altri e quello che non condivido. La canzone “fa presente”, ma da dove viene e dove va rimane nascosto fra le sue pieghe.
Cosa pensi dell’ascesa dei talent show musicali, xFactor in testa?
Sono una forma di calmiere che il mercato impone e si impone per recuperare stralci di sopravvivenza. E’ come la scoperta dell’acqua calda: determiniamo alcuni fenomeni attraverso i media, così non hanno bisogno di tanta pubblicità, ci sono, per così dire, già di casa. Rispetto ad una offerta di artisti che corrisponde ormai alla quasi totalità della popolazione, ne inventiamo un numero chiuso. A questo punto, essendo benedetti dal riconoscimento mediatico, non trovano nemmeno difficoltà ad avere i concerti. Il tutto funziona il tempo di vendere qualche suoneria.
Di per sé non è un fenomeno disprezzabile. E’ la situazione del mercato discografico che è insostenibile. Se poi qualcuno pensa che sia un modo per salvare capra e cavoli, qualità e vendite, non tiene conto di tutti i fenomeni di vera qualità che, non benedetti dall’intercessione mediatica, si trovano ad essere sottoesposti e quindi danneggiati.
Al calmiere dei talent show dovrebbero corrispondere altre iniziative, volte a conclamare e difendere il valore degli artisti più interessanti, dato che il mercato, da solo, non basta a salvarli e nemmeno a salvarsi. Fra l’altro si tratta di un “libero” mercato che libero non è affatto, composto da multinazionali e una nebulosa di indipendenti e indipendentine.
Nel 66 Lennon dichiarò provocatoriamente che “i Beatles sono diventati più famosi di Cristo”. Un’affermazione quanto mai lungimirante visto il sempre più debole appeal della religione sulle nuove generazioni occidentali… Quale è il tuo rapporto con la religione?
Non mi pare che Cristo abbia perso il suo appeal mediatico. Ma credo che la religione sia una faccenda segreta, intima, dell’individuo. Se fossi un religioso, magari cattolico, mi preoccuperei della mia chiesa e del suo asservimento agli strumenti mediatici (del demonio) così come se fossi uno di sinistra che insegue l’utopia dell’ortodossia (e non un bastardo come sono) mi preoccuperei della stessa cosa, parlando non più di un’entità mitologica come il demonio, ma di un’altra entità altrettanto mitologica che è il potere…
Gabriele Serpe
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