Estinguere un reato punibile con non più di 4 anni di carcere attraverso lavori socialmente utili. Nel Comune di Genova si può fare grazie a una convenzione stipulata un mese fa e dedicata agli imputati che aderiscono al percorso dei cosiddetti “messi alla prova”
Una convenzione che consente di svolgere lavori di pubblica utilità presso il Comune di Genova a coloro che siano ammessi al regime della messa alla prova è stata sottoscritta il mese scorso da Palazzo Tursi, Tribunale e Uepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna, che si occupa essenzialmente di gestire misure alternative alla detenzione, in collaborazione coi magistrati di sorveglianza e, se tali misure hanno per oggetto detenuti e non meri imputati, le dirigenze degli istituti penitenziari).
Non è semplice scrivere un articolo riguardante un’innovazione nel campo di istituti giuridici assai tecnici e catturare l’attenzione del lettore comune e non solo agli “addetti ai lavori”. Tuttavia, questa convenzione, oltre che avere degli effetti pratici che influiscono sulla nostra vita come società, è foriero di riflessioni sociali prima ancora che giuridiche molto interessanti. L’accordo, in sintesi, ha stabilito che, durante il periodo di “messa alla prova” (map), un imputato potrà svolgere dei lavori di pubblica utilità (lpu) presso il Comune di Genova. Questa la notizia. Ma andiamo con ordine.
Nel 2014, la legge 67 ha introdotto, nel nostro ordinamento, la messa alla prova per gli imputati adulti. In sostanza, per persone sotto processo (quindi non ancora condannate) per reati punibili con non più di 4 anni di carcere e che sia la prima volta che hanno guai con la legge (l’istituto è escluso, dunque, per i recidivi) è possibile venga seguita questa strada, se l’imputato lo richiede e il giudice lo ritiene opportuno. In tal caso, il processo è sospeso e l’Uepe del territorio struttura e propone un programma, della durata massima di due anni, studiato per l’imputato. In questo periodo, il “messo alla prova” dovrà assolvere a degli obblighi, come riparare i danni cagionati a una persona e, soprattutto, svolgere lpu presso associazioni convenzionate, come quelle che si occupano di volontario. Se l’esito del progetto sarà giudicato positivo, il reato si considererà estinto e il procedimento penale nei confronti dell’imputato verrà chiuso.
Nel 2015 sono state gestite 652 map (alcune a Savona, ma soprattutto qui a Genova) della durata media di 6-8 mesi, quasi tutte dall’esito positivo; un istituto, dunque, ampiamente utilizzato e con ottimi risultati.
Adesso, grazie alla convenzione stipulata ad hoc, nel programma della map possono essere inseriti anche lavori di pubblica utilità (altrimenti detti, socialmente utili) da svolgersi sotto il coordinamento del Comune di Genova. Così, per estinguere il proprio reato, un imputato con le carte in regola per aderire a questo percorso potrà, ad esempio, curare le aree verdi pubbliche o riordinare gli archivi degli uffici di Palazzo Tursi. Può stupire che siano stati necessari due anni per implementare la concretizzazione di questo istituto (prima d’ora le map potevano prevedere lpu solo in associazioni che accettassero di convenzionarsi a tale progetto, ad esempio organizzazioni di volontariato), ma in realtà è un tempo ragionevole se si pensa al complesso bilanciamento da effettuare tra l’interesse alla rieducazione dell’imputato e la salvaguardia degli interessi della collettività, stelle polari che questi progetti sotto l’egida delle istituzioni pubbliche devono seguire.
A riguardo, è stata chiara l’assessore alla legalità, Elena Fiorini, che ci ha parlato della necessitò di «un’ottica complessiva al servizio del cittadino» contrapposta a un’azione miope e poco ragionata vista «soltanto come doverosa attuazione del principio costituzionale di rieducazione». Implementare questi istituti che tendono a evitare a un imputato una condanna è una soluzione interessante per evitare che, chi si macchia di reati tutto sommato di modesto allarme sociale (pensiamo al piccolo furto) per la prima volta, subisca la stigmatizzazione di una condanna penale che, segnando il casellario giudiziale, potrebbe minare seriamente la possibilità di un facile reinserimento sociale e lavorativo dell’imputato.
Inoltre, trovare sistemi di punizione ma anche di reinserimento sociale alternativi alla detenzione sembra un ottimo sistema per far fronte a una situazione carceraria già posta sotto pesante stress: restando nella nostra città, come è agilmente rinvenibile sul sito del Ministero della giustizia, risulta che il carcere di Marassi ospita attualmente 667 detenuti a fronte di 450 posti regolamentari, quello di Pontedecimo invece 139 detenuti su 96 posti (senza contare anche i problemi di organico: Marassi conta 388 poliziotti penitenziari a fronte di 450 previsti, Pontedecimo invece ha 119 effettivi su 161).
L’assessore Fiorini ha evidenziato come l’implementazione di questo tipo di rimedi penali alternativi alla condanna costituisca, nell’ambito della giustizia penale, una vera e propria «rivoluzione copernicana anche dal punto di vista culturale», andando a «scalzare l’idea che chi ha commesso un reato sia soltanto un peso per la società». Tenendo presente che si tratta, in questi casi, di reati di lieve entità (non si parla ad esempio di omicidi, per intenderci), è necessario considerare che i nostri padri costituenti operarono una scelta ben precisa con l’art. 27 della nostra Costituzione, il quale afferma, al terzo comma, che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Certo, chi commette un reato deve pagare per il suo crimine evitando che cagioni altri danni alla collettività ma il tutto deve mirare a un futuro reinserimento sociale del soggetto.
Sul punto, la dottoressa Bianca Berio, direttrice dell’Uepe di Genova, ribadisce che le messe alla prova possono davvero aiutare l’imputato soprattutto a reinserirsi in maniera pacifica in quella società che aveva leso con comportamenti illeciti: soggetti fragili, cresciuti in situazioni limite e ineducati alla convivenza civile, possono trovare negli ambienti che frequentano per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità nuovi modelli di vita sana. Certamente, nelle associazioni di volontariato tese al miglioramento della salute collettiva con azioni dirette al miglioramento della qualità di vita della città ma, ora, anche presso gli uffici del Comune, per definizione orientati al servizio della collettività.
Può essere utile, in conclusione, ragionare su un esempio concreto. Pensiamo a un diciottenne cresciuto in compagnie non proprio raccomandabili (ma che magari sono semplicemente ciò che il suo quartiere offre) che ruba una costosa consolle per videogiochi; per quanto qualcuno potrebbe sostenere che “il carcere lo raddrizzerebbe”, probabilmente varrebbe il contrario: un soggetto fragile come un giovane cresciuto in condizioni di disagio posto, anche per breve tempo, a stretto contatto con chi si è macchiato di colpe ben più gravi, potrebbe imparare molto più su come delinquere a livelli ben più preoccupanti che non a condurre una vita più socialmente sana. Misure come la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità possono, al contrario, usando le parole dell’assessore, dare a soggetti così un «contesto di riferimento» sano, inserire l’imputato in una condizione di vita civile retta svolgendo una mansione e investito della responsabilità di un lavoro, sopperendo magari a carenze educative. In questo senso, pur prestando molta attenzione a che questo approccio alla pena più rieducativo che sanzionatorio non si traduca in un’eccessiva morbidezza (che potrebbe far passare il messaggio che chi sbaglia non paga), misure come questa convenzione sembrano iniziative soddisfacenti per ricercare il giusto equilibrio tra necessità di sanzione e reinserimento sociale.
Alessandro Magrassi