La band di Reggio Emilia al teatro dell'Archivolto. Una delle caratteristiche che ha reso famoso il gruppo sono i testi, tutti scritti e recitati, non cantati, da Max Collini
Sabato 26 gennaio il Teatro dell’Archivolto vede in scena, con l’organizzazione di Habanero Edizioni, lo spettacolo degli Offlaga Disco Pax, attualmente uno dei gruppi più in vista della scena musicale alternativa italiana. Di Reggio Emilia, insieme dal 2003, gli Offlaga sono Enrico Fontanelli, Daniele Carretti e Max Collini, autore degli originalissimi testi, che vengono recitati, anziché cantati, proprio dalla sua voce, il cui inconfondibile e cantilenante accento emiliano è ormai marchio di fabbrica del gruppo. È proprio con Max che abbiamo parlato, a pochi giorni dal concerto genovese.
I vostri testi sono recitati, il che rende i brani estremamente teatrali: era una cosa voluta fin dall’inizio? La scelta di arrangiamenti new wave è semplicemente figlia della passione per il genere o è dettata dalla presenza del recitato e quindi “studiata”?
«Il progetto è nato nel 2003 senza alcuna studiata “teatralità”, semplicemente si è partiti dalla narrazione del testo scritto allestendo di volta in volta una colonna sonora che per similitudine o per contrasto rendesse al meglio le atmosfere evocate dal racconto. Le cose si sono evolute però molto in fretta e le letture iniziali sono diventate per noi delle vere e proprie canzoni, ancorché abbastanza particolari. Uno sviluppo quasi naturale del percorso. Le scelte sonore di Enrico e Daniele sono figlie delle loro passioni musicali, ma lo spontaneismo iniziale credo si sia arricchito moltissimo nel tempo e le svolte musicali sono state diverse nel corso degli anni e secondo me sono molto significative e testimoniano che il progetto non è mai stato fermo creativamente».
Hai preso il microfono in mano per la prima volta a 35 anni, una scelta quindi consapevole: adesso che siete al terzo disco, come guardi alla strada che hai percorso? Soprattutto, com’è trovarsi su un palco così, all’improvviso, venendo da una vita completamente diversa?
«All’inizio mi sembrava tutto molto surreale, avevo una paura fottuta del palco e non sapevo spiegare nemmeno a me stesso perché continuassi a fare una cosa così innaturale, visto che non so cantare, non so recitare e non so suonare né in questi anni ho preso lezioni in questo senso. Col tempo il mio rapporto con il palco si è un po’ rasserenato, pur restando sostanzialmente dialettico, e dopo dieci anni non mi faccio più queste domande. Lo faccio e basta, ma il resto della mia vita non è poi cambiato così tanto. Faccio lo stesso lavoro di dieci anni fa (Max è agente immobiliare, n.d.r.), anche se alle volte il “secondo lavoro” è diventato preponderante sul primo».
La vostra celebre autodefinizione “collettivo neosensibilista contrario alla democrazia nei sentimenti” come è nata e cosa vuole dire?
«Ci piace giocare con le parole e questa specie di “slogan” all’inizio della nostra storia sembrava misterioso più di quanto lo sia realmente. Cosa significa per noi “neosensibilismo” lo abbiamo spiegato in un brano intitolato “Sensibile” che si trova nel nostro secondo album “Bachelite”, mentre la storia sulla “democrazia nei sentimenti” riguarda l’abuso che facciamo di certi vocaboli. Nei sentimenti la democrazia non funziona: i sentimenti non sono democratici, i sentimenti sono dittature».
La musica che parla di politica è sempre stata legata ad un’idea di riscatto e speranza, o comunque ha sempre contenuto una rabbia urlata contro ciò che si ritiene non essere giusto……ascoltando voi il pensiero corre ai Cccp, con la differenza che voi trasmettete un senso di ripiegamento e desistenza, come il titolo di un vostro brano…. quindi, se non abbiamo niente da prenderci, da reclamare gridando, cosa ci resta? La mera constatazione? Insomma, cui prodest?
«La politica nel nostro immaginario è sempre stata un pretesto per parlare d’altro, inserendo in un contesto sociale molto identitario e definito storie invece minime, personali, ironiche e autoironiche in cui l’ideologia pervade il privato ma non per questo può salvarlo. Abbiamo sempre avuto un approccio quasi domestico al nostro lavoro e non abbiamo verità precostituite da affermare. In questo senso siamo davvero poco assimilabili ai gruppi “combat” più tradizionali. Sappiamo certamente da dove veniamo, ma non abbiamo un sentiero luminoso da indicare».
Nelle immagini da te evocate lo sguardo è rivolto spesso a ciò che è stato. Dici che parli del presente “per sottrazione”. Cosa intendi? Non ti viene mai da immergere la penna in questo presente che oggettivamente straborda spunti e temi da ogni lato, per quanto quasi sempre squallidi o vergognosi?
«Il presente è sotto agli occhi di tutti, non ha molto bisogno di essere spiegato e il rischio della retorica è sempre dietro l’angolo. Abbiamo però sicuramente un nostro punto di vista sulle cose del mondo e questo traspare benissimo dalle cose che facciamo. Quando descriviamo e raccontiamo una parte del nostro passato, politico o sociale ma anche personale, il qui e adesso è ugualmente tracciato e il confronto sorge spontaneo in chiunque e chiunque se vuole può trarne delle conclusioni, qualunque esse siano».
Claudia Baghino