Con la riforma del sistema pensionistico i giovani potranno percepire anche il 70% dell’ultimo stipendio. Ma rimangono i problemi del lavoro precario e le cifre medie degli stipendi per i giovani
Una notizia positiva per i giovani lavoratori arriva da uno studio Inps, realizzato da Stefano Patriarca, sugli effetti del metodo contributivo in vigore per chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995.
E’ ben noto che l’età pensionabile è stata allungata dalle recenti riforme, per cui tutti i lavoratori andranno in pensione più tardi. Ma la vera sorpresa è che proprio questo allungamento dell’età minima per lasciare il lavoro, farà sì che l’importo del contributo non sarà così basso come si è stimato finora (si parlava in passato di cifre irrisorie intorno al 30%), ma potrà essere pari al 70% dell’ultimo stipendio per un lavoratore dipendente e del 57% per un parasubordinato.
Il concetto che sta alla base è semplice: più anni di contributi si versano, più tardi si va in pensione, è più si prende.
Ovviamente queste considerazioni riguardano il metodo previdenziale e non tengono conto del mercato del lavoro e della cifra dell’ultimo stipendio dei lavoratori, da cui ovviamente dipende il livello della pensione. Qui si tiene contro solamente di percentuali, che secondo questo studio sono destinate a salire.
E’ ovvio che il problema per i giovani al giorno d’oggi è, in primis, trovare un lavoro. In secondo luogo ottenere un impiego che garantisca una retribuzione degna, in terzo non vivere nella precarietà. A proposito ha dichiarato Patriarca: “La vera emergenza non è rappresentata dalle pensioni di un generico universo giovanile, ma dalle condizioni di lavoro di aree ben definite ma drammatiche, a partire dal lavoro nero e dalle nuove partite Iva. È qui che bisogna intervenire. Quanto al resto, bisogna dire una volte per tutte che il vecchio mix anzianità-sistema retributivo, che ancora si applica alla stragrande maggioranza dei nuovi pensionati, chi nel ’95 aveva meno di 18 anni di servizio, è insensato».
Dallo studio emerge che i lavoratori, sia uomini che donne, potranno andare in pensione dopo aver raggiunto i 65 anni e 3 mesi (nel 2046) o se avranno i 35 anni di contributi versati, necessari per la pensione anticipata.
In caso contrario si dovrà attendere fino a 69 anni e 3 mesi, età di pensionamento di vecchiaia in vigore nel 2046. In questo modo anche le pensioni di vecchiaia avranno in sostanza almeno 35 anni di contributi versati.
Per fare qualche esempio pratico, un lavoratore che inizia nel 2011 a lavorare all’età di 34 anni, andrà in pensione nel 2046, dopo 35 anni di contributi, ottenendo come pensione il 70% dell’ultimo stipendio se si tratta di lavoro dipendente, il 54 % per un autonomo.
Anche nel caso, peraltro molto attuale, di un lavoratore precario per tutta la carriera lavorativa, andrebbe in pensione con un assegno pari al 57% dell’ultima retribuzione, contro il 30 % di cui si parlava nei mesi scorsi. Non si parla di cifre astronomiche, anche perché molto dipende dal livello economico della retribuzione stessa, ma si tratta comunque di una minoranza.
Nel caso di un lavoratore discontinuo, l’assegno pensione si assesterebbe intorno al 60%.