La regista genovese Cristina Oddone assieme a Laboratorio di Sociologia Visuale, Centro Frantz Fanon di Torino, ASL 4 e l'Escuelita di Chiavari lavora a un progetto video tra la Liguria e l'Ecuador sulla tematica dell'immigrazione
Permiso de Soñar è un film del collettivo Escuelita, nato da un laboratorio video animato da Cristina Oddone, Zelmira Pinazzo, Claudia Sbarboro, Gianluca Seimandi, Simone Spensieri. È l’ultimo progetto video diretto dalla regista genovese Oddone che, dopo il successo del documentario “Loro Dentro” (qui l’approfondimento di Era Superba), si è avvalsa ancora della collaborazione degli operatori del Laboratorio di Sociologia Visuale, del Centro Frantz Fanon di Torino e ASL 4, allargando il cerchio anche all’Escuelita di Chiavari.
Il film racconta la migrazione di un gruppo di giovani che dall’Ecuador sono arrivati in Italia per ricongiungersi con le loro madri, partite anni prima sperando di trovare un’occupazione nel nostro Paese. Permiso de Soñar affronta i problemi aperti legati all’accoglienza nel nostro Paese e soprattutto in Liguria, alle leggi, agli ambienti “devianti” in cui i migranti spesso si trovano a vivere.
Il titolo, com’è facilmente intuibile, significa “Permesso di sognare”: una formula che richiama anche fonicamente il concetto di “permesso di soggiorno” ed evoca le difficoltà di ottenere un documento che legittimi la presenza di questi soggetti sul territorio e restituisca loro la speranza di un progetto di vita concreto.
Nel dicembre 2012, una versione ancora embrionale era stata presentata a Genova in occasione dell’Ecuador Festival. Si trattava di un piccolo premontato di circa 18 minuti. In seguito, questo lavoro è stato integrato con altre immagini e contributi: un docu-film di circa 50 minuti, in formato HD (fotocamera Canon 70D e telecamera SONY HVR Z1), da distribuire in festival, circuiti televisivi, dvd, formazioni sul tema delle migrazioni e della sofferenza sociale. Per questo, dallo scorso 27 gennaio è stato aperto il crowdfunding: chi vuole, può fare una donazione entro il 15 maggio 2014 e aiutare la realizzazione del documentario.
«Al momento gli incontri all’Escuelita si svolgono una volta a settimana – racconta la regista Cristina Oddone – ma siamo fermi con le riprese perché stiamo cercando finanziatori per poter ideare un progetto organico. Per ora abbiamo optato per il fundraising e ci siamo affidati a Produzioni dal Basso, ma abbiamo in programma anche un incontro con il consolato ecuadoriano per cercare di sbloccare la situazione: anche loro sono sensibili alle tematiche che trattiamo perché negli ultimi anni si sta riscontrando un ritorno dei migranti nel Paese di origine».
Il progetto nasce grazie all’iniziativa di “La Escuelita”, collettivo di giovani immigrati per lo più ecuadoriani, che da ormai 6 anni opera nel territorio del Tigullio – tra Chiavari e Lavagna – e lavora sulle problematiche di esclusione e marginalizzazione. Si riunisce con la supervisione dello psichiatra Simone Spensieri del Centro Frantz Fanon di Torino e segue il percorso complicato di questi giovani stranieri – molti dei quali frequentano anche il SERT -, occupandosi di cittadinanza e processi di socializzazione. Nel 2013 Escuelita ha deciso di dare avvio alla realizzazione di un documentario sui sogni dei ragazzi che ospita e sulla loro difficoltà nel trovare nuovi orizzonti di vita nell’area del Tigullio, collegando a doppio filo Liguria e Sud America. Chiavari, nello specifico, è uno scenario particolare: è una “provincia ricca”, meno problematica e complessa di Genova. Anche se si tratta di una città di migranti (diretti proprio verso il Sud America), oggi qui la società è conservatrice, i giovani stranieri danno più nell’occhio, sono stigmatizzati e devono fare spesso i conti con una forte sorveglianza.
Inoltre, il motivo della formazione di una comunità così importante proprio nella nostra regione è dovuta al fatto che, come si sa, l’età media degli abitanti è alta, la popolazione è anziana e bisognosa di cure: per questo molte donne sudamericane hanno scelto di vivere qui, lavorando come badanti. Poco dopo, il ricongiungimento dei coniugi e dei figli, per la ricostruzione del nucleo famigliare. Solo che, mentre le madri hanno trovato impiego presso le famiglie chiavaresi, i figli sono rimasti sospesi «tra un passato sfumato e un futuro che non riesce a configurarsi», come racconta la regista. Sono in Italia da ormai una decina di anni, sono arrivati quando erano adolescenti e frequentavano le scuole superiori; adesso hanno circa 27-28 anni, molti di loro hanno una famiglia, le loro storie sono sfaccettate e complicate. Da un lato non vogliono andarsene dal nostro Paese, ma le dinamiche di inclusione e il contesto sembrano ostili; dall’altro mitizzano la patria lasciata e vorrebbero tornarvi, soprattutto adesso che – complice la crisi dell’occidente – l’Ecuador è un Paese emergente, con più possibilità sotto il profilo professionale e dell’istruzione, e con maggiori incentivi sul piano edilizio.
In bilico tra restare e tornare, tra inclusione ed esclusione in un contesto ostile, questi migranti hanno anche molti ostacoli legali davanti a sé: ottenere la cittadinanza italiana, avere i documenti in regola e un permesso di soggiorno permetterebbe loro di costruirsi una vita “regolare”, trovare un lavoro che non sia in nero e che non li renda ricattabili, fare progetti per la loro famiglia.
Dallo scorso anno si è cominciato a introdurre nei tradizionali incontri dell’Escuelita una riflessione sull’immagine e la narrazione di sé, realizzando interviste e girando scene all’aperto, nei luoghi normalmente frequentati dai ragazzi, cercando di coglierne l’aspetto quotidiano. Si è pensato di trasformare i consueti colloqui individuali in incontri di gruppo tra individui con problemi simili, in cui i soggetti potessero tirare fuori le proprie emozioni, ascoltarsi e imparare anche a usare la macchina da presa e la strumentazione.
Il girato si snoda in periferie e spazi urbani in stato di abbandono, e – come succedeva in “Loro dentro”, documentario girato all’interno del carcere di Marassi – l’obiettivo è instaurare un narrato intimistico e creare un livello di confidenza con i personaggi, spingendoli a parlare delle proprie storie perché a loro agio con gli operatori.
L’approccio è etnopsichiatrico e tratta le problematiche dei vari soggetti non come se fossero separate dallo scenario di riferimento, ma contestualizzandole e facendo riferimento al gruppo etnico di riferimento: cade il giudizio etnocentrico e vengono messe in luce le specificità di certi disturbi non appartenenti a categorie psichiatriche universalmente riconosciute.
Elettra Antognetti