In città sono stati assegnati ad oggi 1300 posti e sono 22 le strutture nel Comune di Genova all’interno delle quali vengono ospitati i profughi. Prendiamo in esame i dati aggiornati per fare chiarezza sulla portata del fenomeno e sulla sua incidenza nella vita cittadina
L’eco, a dire il vero neanche troppo lontana, degli sgomberi “No Borders” al confine italofrancese ha fatto passare in secondo piano quella che per settimane è stata la questione più dibattuta sulle pagine dei giornali locali e non solo: la prima accoglienza dei migranti in Liguria e il successivo processo di smistamento e integrazione nella vita genovese. Come abbiamo già cercato di dimostrare in passato, chi parla incessantemente di “invasione”, lo fa per lo più con finalità di strumentalizzazione politica e viene seccamente smentito dai numeri come illustrato dall’assessore alle Politiche sociali Emanuela Fracassi, nel corso di un aggiornamento in Commissione consiliare lunedì mattina. Così, recependo una proposta De Pietro (M5S) e Gioia (Udc), l’amministrazione dedicherà alcune pagine del proprio sito istituzionale alla corretta informazione sul tema dei migranti richiedenti asilo per cercare di stoppare sul nascere i proliferanti falsi luoghi comuni.
Certo, il tema della prima accoglienza e dell’integrazione dei migranti è delicato e necessita di soluzioni concrete e non troppo improvvisate. Ma il fenomeno, sicuramente in espansione negli ultimi anni, ha senza dubbio la necessità di assestarsi prima di poter essere analizzato con la giusta prospettiva.
Il flusso di profughi siriani è percentualmente irrilevante mentre sono molte le richieste di asilo che arrivano da donne nigeriane, che non provengono da zone di guerra ma da gravissime situazioni di violenza e per cui la decisione della concessione di protezione internazionale è molto delicata.
Con l’ultima circolare ministeriale che risale allo scorso 8 settembre, alla Liguria sono stati assegnati complessivamente 3980 posti per l’accoglienza di migranti richiedenti asilo. Di questi, 2914 sono già attivi su tutto il territorio regionale mentre circa 1300 si concentrano nella provincia genovese (e quasi esclusivamente nel Comune di Genova, per un’incidenza sulla popolazione residente pari circa al 2 per mille). Il Tavolo di coordinamento di questi flussi è gestito direttamente dalla Prefettura, emanazione territoriale del governo centrale, sia dal punto di vista del monitoraggio delle presenze sia da quello della messa in atto di soluzioni efficaci per rispondere alle necessità dell’accoglienza.
Nella maggior parte dei casi, i profughi che arrivano a Genova sono in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato, un procedimento gestito da una Commissione ad hoc che, finalmente, da 5 mesi è attiva con una sede anche nella nostra città. «Non dobbiamo più accompagnare i profughi a Torino – spiega l’assessore – ma i tempi di attesa tra l’identificazione e il riconoscimento dello status di rifugiato sono mediamente di 18 mesi, un’enormità rispetto ai 3 mesi previsti dalla legge». Per la cronaca, la commissione genovese ha accettato solo il 30% delle richieste: dopo un eventuale diniego è possibile fare ricorso e arrivare fino al terzo grado di giudizio ma naturalmente i tempi si allungano e quella che dovrebbe essere “solo” una prima accoglienza si trasforma in qualcosa di semi-permanente. «Benché un periodo di osservazione di 5 mesi non possa ancora avere rilevanza statistica – osserva l’assessore Fracassi – i flussi che riguardano Genova e la Liguria presentano già aspetti interessanti e caratterizzanti: ad esempio, il flusso di profughi siriani è percentualmente irrilevante mentre sono molte le richieste di asilo che arrivano da donne nigeriane, che non provengono da zone di guerra ma da gravissime situazioni di violenza e per cui la decisione della concessione di protezione internazionale è molto delicata».
I migranti che arrivano in territorio ligure vengono accolti in strutture gestite da enti accreditati del terzo settore e hanno diritto a vitto, alloggio, beni di prima necessità, assistenza sanitaria, consulenza legale e mediazione culturale per l’apprendimento della lingua italiana. Secondo quanto previsto dalla normativa, per l’accoglienza di ciascun migrante lo Stato versa 35 euro al giorno, compresi 2,5 euro consegnati direttamente ai profughi per minime spese personali.
Com’è noto dalle cronache cittadine, la prima attività di screening e assistenza sanitaria dei profughi giunti a Genova viene fornita attraverso due strutture: una a Campi, in corso Perrone, in sostituzione della originaria collocazione al Palasport, l’altra nell’ex palazzina Q8 in viale Brigate Partigiane in via di ristrutturazione. Ma l’obiettivo dell’amministrazione è di riuscire a individuare a breve un grande “hub” cittadino o regionale, magari proveniente da qualche struttura acquisita gratuitamente da Tursi attraverso il federalismo demaniale e per la cui ristrutturazione sfruttare i finanziamenti messi a disposizione dal Ministero.
Intanto, i profughi arrivati in città provano a darsi da fare lavorando gratuitamente per sentirsi utili e offrire un mutuo aiuto a chi li ha accolti. È il caso, ad esempio, di chi ha aderito all’azione di pulizia volontaria del parco dell’Acquasola e di villetta Di Negro. In attesa che arrivi la formalizzazione dello status di protezione internazionale, i migranti non possono stipulare regolari contratti di lavoro ma il Comune, attraverso la collaborazione dei Municipi, ha pensato a un apposito protocollo siglato con Prefettura e associazioni del Terzo settore per coinvolgere attivamente i profughi nella vita della città. Anche se c’è già chi mugugna che si tratti di una sorta di sfruttamento di mano d’opera.
Fin qui la cosiddetta “prima accoglienza”, su cui tuttavia il coinvolgimento di Tursi è soprattutto a livello logistico, consultivo e di coordinamento tra la Prefettura e le associazioni che si occupano del sociale. Più diretta, invece, è l’azione del Comune in un altro progetto di accoglienza che ricade nel sistema SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), finanziato dal Ministero dell’Interno fin dal 2001, con costi che si aggirano sui 40 euro giornalieri per ciascun assistito (45 euro per i minori). Si tratta della cosiddetta accoglienza di secondo livello, ovvero la realizzazione di percorsi di integrazione e autonomia per chi si è visto riconoscere formalmente lo status di rifugiato e vuole rimanere a vivere in città. Attualmente sono 187 i posti che il Comune può mettere a disposizione, 170 adulti e 17 minorenni.
I minori stranieri non accompagnati e accolti in città sono in realtà molti di più. Dal novembre 2014 è attivo un apposito progetto finanziato dal Ministero dell’Interno per 50 bambini suddivisi tra due strutture in via Serra e a Cornigliano. Inoltre, il Comune ha una propria struttura per la prima accoglienza in emergenza in grado di dare risposta a 12 minori. Infine, lo scorso aprile Tursi ha partecipato a un bando ministeriale per strutture di seconda accoglienza dedicate ai minori presentando un progetto per 40 posti ma gli esiti non sono stati ancora comunicati.
Il fulcro del sistema di accoglienza, sia esso di primo o secondo livello, sono indubbiamente le associazioni che operano nel campo del sociale e i tanti volontari che vi collaborano. Secondo i dati forniti dalla Prefettura, al momento sono 22 le strutture nel Comune di Genova all’interno delle quale vengono ospitati i profughi. Si può fare di più? Secondo l’assessore Fracassi sì e i nuovi percorsi da intraprendere riguardano la cosiddetta accoglienza diffusa, che chiama in causa la partecipazione diretta delle famiglie genovesi, sempre sotto il coordinamento delle associazioni del Terzo settore. «Il modello da seguire è quello del Comune di Asti – ha tracciato la linea l’assessore – dove molte famiglie, per lo più di origine straniera, hanno scelto di ospitare alcuni profughi a casa propria, ricevendo 400 euro al mese dalle istituzioni come contributo al mantenimento». Certo, l’accoglienza in famiglia non può andare bene per tutte le situazioni ma è comunque un percorso che Genova non può lasciare intentato: «La scelta sul modello di accoglienza più adeguato per ciascun caso – conclude Fracassi – è molto difficile: l’inserimento di un profugo in una famiglia, ad esempio, non è indicato nella fase di prima accoglienza (ad Asti, ad esempio, avviene dopo un periodo di 3 mesi passati in un centro di accoglienza collettivo come quello di Campi, NdR) e può essere ugualmente problematico per i minori che potrebbero vedere acuiti i traumi del viaggio e della fuga».
Simone D’Ambrosio