I numeri genovesi della violenza sulle donne sono da interpretare, ma il sistema dei servizi è in fase espansiva tra centri, formazione e interventi. Il punto della situazione
Lo chiamano amore, troppo amore, amore criminale o amore malato: è solo violenza. In Italia, oltre 100 donne ogni anno vengono uccise da uomini, mentre è quasi impossibile calcolare quante riescano in qualche modo a salvarsi la vita dopo aver subito violenze; l’Istat stima che il 31.5% delle donne fra i 16 ed i 70 anni abbia subito violenze e per il 16% circa si è trattato di stalking (circa la metà da un ex partner) ma anche che 8 su 10 non si siano rivolte ad alcun ente per cercare aiuto.
Genova e la Liguria non fanno eccezione rispetto a questi dati; è dello scorso anno l’uscita di un documento pubblicato dall’Ars (Agenzia regionale per la sanità) con i risultati di una ricerca condotta dall’Unità di Criminologia dell’Università di Genova: ebbene i dati di accesso ai vari Pronto Soccorso liguri mostrano 2.476 donne che nel 2013 hanno denunciato violenze domestiche; sono invece 1.121 le donne che nel 2015 si sono rivolte ai centri antiviolenza e poco meno di 800 nel 2016. Ma questi dati devono ancora essere interpretati, visto che ogni anno circa 400-500 donne vengono prese in carico dal centro e solo un terzo di queste ha sporto denuncia alla polizia contro il partner.
Cifre gonfiate, ritorsioni, paura: ognuno può dare la propria interpretazione di questo fenomeno ma sembra difficile riuscire a sminuirne davvero l’impatto. Persino il procuratore Capo di Genova, Francesco Cozzi, in un recente intervento ha ammesso che senza un percorso di recupero e rieducazione maschile la recidiva è quasi inevitabile, ammettendo quindi implicitamente un certo “radicamento” del fenomeno all’interno di relazioni disturbate. EraSuperba si occupò di questo argomento nel 2014, al momento del varo del Patto di Sussidiarietà che ora dovrebbe essere andato definitivamente a regime.
Ne abbiamo parlato con Rita, da diversi anni volontaria del Centro Antiviolenza di Via Mascherona a Genova:
Come è attualmente la situazione? Rispetto al 2013, quando si è partiti con i patti di sussidiarietà, c’è stata una sistematizzazione dei vari servizi?
«La gestione è affidata, proprio attraverso questo meccanismo, alle varie associazioni, cooperative e gruppi di volontariato che in questo modo riescono ad occuparsi in maniera autonoma dei vari aspetti così come richiesto dall’Ente. Il rovescio della medaglia è che a dividersi lo stesso piatto sono più soggetti, quindi in buona sostanza ci sono meno soldi per tutti. Questo dal punto di vista attuale, del qui ed ora, quando è ancora il Comune che gestisce e coordina questo servizio, senza che dal Governo centrale arrivino chiare disposizioni in materia».
Lo Stato non si sta facendo carico di questi servizi?
«Diciamo che per due anni, dall’insediamento del Governo Renzi che si era assegnato la delega alle Pari Opportunità, affidandole poi alla Boschi che le mantiene tuttora, un vero Ministero non c’è stato, e questa mancanza si è fatta sentire».
La Regione Liguria non è intervenuta?
«Si, in realtà l’assessore regionale alla Cultura con delega per le Pari Opportunità Ilaria Cavo ha dichiarato di avere intenzione di rimettere ordine nel settore, stabilendo in maniera univoca gli incarichi e le competenze, in modo da assicurare uniformità e continuità a tutti i Centri liguri coinvolti. Ci sono stati stanziamenti finanziari abbastanza significativi anche se ovviamente sono sempre molto inferiori alle reali necessità».
Ecco, a questo proposito, quanti sono i Centri Antiviolenza in Liguria?
«Abbiamo 7 centri, di cui 3 a Genova città, uno a Chiavari ed uno a testa per le altre tre provincie; poi ci sono gli alloggi sociali e le case rifugio ad indirizzo segreto, ma diciamo che questo esula un po’ da quello che è il nostro compito primario».
…che sarebbe?
«Sarebbe, anzi è, accoglienza per le donne che subiscono violenza, sia fisica che psicologica attraverso comportamenti minacciosi o persecutori; è l’ottenimento di una consulenza legale per informare la donna sulle procedure a cui andrà incontro in caso di denuncia ed è un supporto psicologico affinché tutto questo percorso sia sostenuto il più serenamente e consapevolmente possibile».
Ed in presenza di eventuali figli come vi comportate?
«Dipende ovviamente dal grado di violenza o tensione che ci viene riferito dalla madre. In ogni caso in presenza di minori devono sempre intervenire i servizi sociali, anche perché se la signora deve rifugiarsi in una struttura occorre l’autorizzazione di entrambi i genitori, per assurdo che possa sembrare, a meno che il padre non perda la patria potestà sui figli: ma sono casi delicati da giudice dei minori e che devono essere valutati singolarmente. Comunque per gli uomini esiste un Centro apposito, Lo Spazio Uomo Maltrattante, in Piazza Colombo a Genova, gestito da Il Cerchio delle Relazioni, al quale si possono rivolgere gli uomini che riescono ad ammettere di avere un problema grave e di volerlo affrontare».
A questo punto la persona più adatta per parlarci delle difficoltà anche maschili è proprio Manuela Caccioni, pedagogista, responsabile del Centro Antiviolenza Mascherona, che ci racconta di come fin dal 2012 la Cooperativa Il Cerchio delle Relazioni abbia emesso il bando per un Centro di ascolto per l’uomo, una vera novità in quel momento, che adesso funziona regolarmente e che non è neanche l’unico in città.
«In ogni caso le persone vengono sempre ascoltate separatamente, non ci può essere mediazione di coppia quando il problema è la violenza – chiarisce subito – raramente gli uomini arrivano di propria iniziativa, molto spesso sono caldamente invitati a farlo dai Servizi Sociali o dalla Polizia. Però poi sono abbastanza collaborativi, anche perché allettati dalla possibilità di essere considerati con maggiore indulgenza se dimostrano voglia di cambiare».
Dal 2012 ad oggi è comunque cambiato molto l’atteggiamento verso questo gravissimo problema, abbiamo potuto fare formazione per gli agenti di Polizia con cui lavoriamo con buona sinergia insieme ai Servizi sociali. Questa collaborazione non solo è utile perché, come dicevo, spesso le persone vengono inviate a noi in seguito a richieste di intervento, ma diventa indispensabile per evitare un appesantimento burocratico ed anche legale che di fatto annullerebbe gli effetti dei Centri: «Basti pensare che una donna che si allontanasse da casa con il bambino a causa delle botte potrebbe essere denunciata dal marito per sottrazione di minore ed abbandono del tetto coniugale, innescando un circolo dispendioso ed estenuante di ricorsi e citazioni in giudizio».
Ma come ottenere la protezione delle istituzioni? «Se si parla di violenza fisica – continua la dottoressa Caccioni – la cosa migliore è rivolgersi alla Polizia che, teoricamente, sarebbe anche il primo soggetto cui chiedere aiuto in tutti i casi, anche per maltrattamenti morali, persecuzioni, stalking insomma. In questo caso non è neanche necessaria una denuncia, viene avvisato il persecutore che non saranno tollerati ulteriori comportamenti di questo tipo e nessuna iscrizione giudiziaria viene posta sulla fedina penale del presunto colpevole, tranne i casi in cui sia procedibile d’ufficio, per concorso di altro reato o qualora la vittima fosse minorenne o perché il colpevole era già precedentemente stato ammonito»
A questo proposito la pedagogista specifica: «lo stalking è comunque una forma di violenza vera e propria, per questo le donne che si rivolgono a noi, o che sono state inviate dalla Polizia di Stato, trovano una consulenza legale con il nostro avvocato, in modo che abbiano chiaro il percorso che dovranno affrontare e si preparino a seguirlo con serenità». A volte, però, bisogno intervenire in situazione che stanno a metà strada: «può anche succedere che la donna arrivi da noi esasperata da una serie di comportamenti distruttivi del compagno – spiega Caccioni – ma che non voglia interrompere la relazione: in questi casi noi ci adeguiamo al suo volere, non cerchiamo mai di forzarne le scelte».
Quando si parla di questo argomenti, però, occorre considerare un altro aspetto: in Italia la diseguaglianza sociale è sempre stata una delle più marcate fra i paesi ad economia avanzata. Questo divario fra redditi alti e bassi è poi gradualmente diminuito dalla metà degli anni ’70 fino alla fine del 1991 quando iniziarono le prime contrattazioni flessibili. Negli anni 2000 è rimasta stazionaria ma dal 2008 ha ripreso a salire. La curva della povertà segue più o meno lo stesso andamento, con alcuni scostamenti in base all’età (fonte Istat).
Ne consegue che le politiche sociali, così come quelle delle pari opportunità sono diventate qualcosa di diverso rispetto a quando furono create, e ancora di più lo saranno in futuro, se vorranno rispondere alle nuove e mutate esigenze dei cittadini, rendendo di fatto obsolete leggi emanate anche solo pochi anni fa.
Risulta infatti evidente come sembrino inadeguate risposte uguali ad istanze diverse, che arrivano da una società sempre più stratificata e variegata; per fare questo occorrerà ripensare, riprogettare e sostenere i servizi alla persona ed in particolare quelli socio assistenziali. Per ritornare al nostro argomento, abbiamo visto come sia i servizi sociali, sia le associazioni alle quali il Comune delega i compiti assistenziali siano, a parte la cronica carenza di fondi, effettivamente presenti ed anzi preziosi per il presidio del territorio, e come rappresentino in ogni caso un punto di riferimento imprescindibile.
Ma occorre attenzione: nell’ultimo film di Ken Loach “Io sono Daniel Blake” c’è un operaio che cerca di ottenere una risposta da una Pubblica Amministrazione che dovrebbe aiutarlo, ma che invece diventa spietata perché il suo problema non è codificato e nessuno è preparato a gestire la complessità: se le risposte sono uniformi, i problemi si devono uniformare. Ecco, questo è ciò che i nostri servizi sociali adesso non sono, ed è anche quello che non devono mai diventare per quanto ciò possa rappresentare uno sforzo sia economico che, soprattutto, mentale e culturale.
Bruna Taravello