Stimolati da una segnalazione giunta in redazione, lanciamo un’interessante riflessione con l’epidemiologo dell’Ist, Valerio Gennaro, e la direttrice dell’Ufficio Statistica del Comune di Genova, Maria Pia Verdona, sulla necessità di correlare i dati statistici sulla salute dei genovesi ai bisogni reali dei cittadini
Pochi dati o informazioni nascoste. A Genova sembra che nessuno sia interessato a conoscere a che punto stia la qualità della vita degli abitanti. La sensazione è che manchino le informazioni o che, chi ne è in possesso, non abbia particolare interesse a renderle pubbliche e, soprattutto, a sfruttarle per fini utili ai cittadini.
«Diamo retta solo alle lobby che premono per le grandi opere e pensano solo al contesto economico. Ma il vero dato utile sarebbe sapere come stanno i genovesi e individuare se sul territorio esistono particolari criticità» sostiene il dottor Valerio Gennaro, epidemiologo dell’Ist di San Martino.
E come stanno i genovesi? «Mi sembra che il genovese stia male», continua Gennaro. «Stanno male anziani, disabili e bambini. E in più, noi che misuriamo queste cose, non siamo messi in grado di fare il nostro lavoro. Ma se vuoi risolvere un problema, devi conoscerne le dimensioni, la diffusione. Se no, fai prevenzione un tanto al chilo, senza prove, senza evidenze scientifiche. Finisci per legarti al mercato ma non alle esigenze della gente».
Che cosa intende? «Ad esempio, il quartiere di Cornigliano continua ad avere una mortalità più alta della media anche dopo anni dalla chiusura della cocheria dell’Ilva. Questa è una criticità che genera non solo problemi di salute, ma anche economici ed etici. Che cosa facciamo per affrontarla? A Genova sembra che ci sia un disinteresse verso questo tipo di dati. Forse anche perché noi, come tecnici, parliamo poco; parlano soprattutto gli economisti, ma gli epidemiologi, i sociologi e gli antropologi difficilmente trovano spazio. Manca una visione d’insieme della città e delle sue criticità».
La solita colpa dell’amministrazione? «È vero che il Comune da solo non può risolvere tutti i problemi ma deve attrezzarsi quantomeno per conoscere le esigenze del territorio e della sua popolazione, sapere quali sono i quartieri che hanno la maggiore mortalità, dove vivono meglio e peggio i bambini. E su queste informazioni calibrare un certo tipo di servizi. Ad esempio, se ci fossero zone con una particolare concentrazione di disabili, si potrebbe pensare a servizi di mobilità ad hoc. Mi preoccupa che nessuno parta mai dai bisogni reali della gente».
La risposta arriva dal direttore dell’Ufficio Statistica del Comune di Genova, Maria Pia Verdona: «Bisogna distinguere tra la statistica e gli studi epidemiologici che devono partire dall’ambito sanitario, dalle Asl, dall’università, ovvero i soggetti che hanno le competenze per organizzare un’indagine, gestirla e valutarne i dati. L’attività della statistica può intervenire in un secondo momento, monitorando l’andamento di questi dati, una volta raccolti. Se mancano informazioni sullo stato di salute dei cittadini, il problema è di chi gestisce si occupa della salute, cioè dei medici a tutti i livelli. Stiamo parlando di dati clinici, spesso riservati. L’unica cosa che possiamo sapere noi sono i tassi di mortalità; ma il Comune non ha il diritto di accesso alle informazioni né le competenze per scorporare i dati che vengono inviati da ospedali e medici a Istat e Asl, e ritornano a noi solo in modo aggregato».
E, in effetti, i dati forniti dal notiziario statistico comunale in tema sanitario sono veramente esigui. Si riesce giusto a sapere che nel primo semestre del 2013 a Genova sono morte 4759 persone, di cui 4038 residenti e che i nati vivi nello stesso periodo sono stati 2798. Più interessante, anche se di utilità limitata, il dato dei 49309 ricoveri negli ospedali cittadini, day ospital esclusi, da gennaio a giugno: circa 1 ogni 12 abitanti. Ma le cifre si fermano qui. Possibile che non si possa fare altro?
«Certo, sarebbe molto interessante cercare di correlare i dati sulla salute dei cittadini al contesto ambientale e sociale in cui vivono e alle loro esigenze», prosegue Verdona. «E, in effetti, come Ufficio Statistico del Comune di Genova stiamo proprio facendo uno studio di fattibilità per lanciare un progetto futuro in questa direzione. Ma si tratta di una cosa molto delicata, che richiede l’acquisizione di una notevole mole di dati. Bisogna mettere intorno a un tavolo teste pensanti ad alto livello e competenze istituzionali diverse per trovare indici e correlazioni interessanti e veritieri tra lo stato di salute e altri aspetti della vita privata e sociale».
Si spieghi meglio. «Che cosa significa dire che in un Municipio c’è un’alta frequenza di patologie, se non conosco le cause territoriali o personali che le possono avere provocate? Io posso vivere a Sampierdarena e avere determinate patologie, ma magari lavoro a Vado da trent’anni e sono sottoposto quotidianamente a certi fattori inquinanti e, quindi, che abiti a Sampierdarena non c’entra nulla. Oppure posso vivere a Sestri da cinque anni, ma aver trascorso metà della mia vita a Taranto, sotto i fumi dell’Ilva. Voglio dire che raccogliere dati sulla salute dei cittadini, con una percentuale di attendibilità elevata, è un processo molto delicato: le variabili sono talmente tante che il rischio di fare valutazioni non corrette è molto forte. Mentre è semplice fare un’indagine epidemiologica sullo stato di salute dei lavoratori all’interno di uno specifico ambiente produttivo – perché posso sapere da quanto tempo lavorano in quel reparto, quanto ore al giorno, a che tipo di sostanze sono esposti…, insomma ho tanti elementi che mi consentono di fare opportune valutazioni – sulla popolazione, tra l’altro fortemente soggetta a mobilità, il compito si fa estremamente difficile. Si tratta, comunque, di studi molto utili ma per nulla banali e non possono prescindere dai dati in possesso delle istituzioni mediche. Il problema è capire quanto tempo e quante risorse ci vogliono per imbastire questi studi. E, soprattutto, le energie impiegate devono poi ripagarti degli sforzi».
Forse, più semplice potrebbe essere approntare una serie di servizi per accompagnare e sostenere le determinate patologie riscontrate piuttosto che tentare di prevenirle. Certo, non sarebbe la soluzione del problema alla sua radice ma potrebbe aiutare a migliore la qualità della vita. Anche in questo caso, però, è necessario prestare molta attenzione alla mutevolezza delle esigenze, dovute ai cambiamenti, ai tassi di immigrazione e di emigrazione, nonché all’indice di mortalità da non sottovalutare in una città anziana come Genova. Insomma, una programmazione a lungo termine in questa direzione non è un elemento che possa essere studiato con semplicità a tavolino. D’altronde, con una continua diminuzione delle risorse economiche a disposizione, non si può neppure pensare di continuare a lavorare solo per tamponare le emergenze. Il cuore del problema, dunque, è capire se esiste, e dove sta, un giusto mezzo.
C’è una soluzione? «Partire dalla qualità della vita come indicatore – sostiene l’epidemiologo Valerio Gennaro – dall’aspettativa di vita sana, che è informazione complementare rispetto all’aspettativa di vita complessiva. Cioè a che età ci si ammala, quando non si è più autosufficienti? In Italia, nell’ultimo decennio, questo indice è crollato. E credo anche a Genova. Sarebbe interessante capire come stanno i genovesi collettivamente, quartiere per quartiere, quali sono le fasce più deboli. Altro dato importante potrebbe essere quello che riguarda la mortalità evitabile. Tutte informazioni che dovrebbero essere stimate, anno per anno, zona per zona. Siamo una città ricca di cervelli e c’è gente disposta a mettersi in gioco. Si potrebbero conciliare i problemi della gente con le risorse che si hanno in casa. Ma prima bisogna capire che la vera grande opera è la salute della gente perché solo da lì si può arrivare al miglioramento della qualità della vita come indice di progresso».
Simone D’Ambrosio
[foto Daniele Orlandi]