Dr. Burton-Chellew, Lei è stato citato da Repubblica per uno studio che dimostra come si perdano degli amici quando si entra in una relazione sentimentale. Tuttavia sono sicuro che molti, leggendo l’articolo, avranno pensato che si tratti di un argomento di ricerca un po’ sciocco e frivolo: alcuni si chiederanno come mai i ricercatori di […]
Dr. Burton-Chellew, Lei è stato citato da Repubblica per uno studio che dimostra come si perdano degli amici quando si entra in una relazione sentimentale. Tuttavia sono sicuro che molti, leggendo l’articolo, avranno pensato che si tratti di un argomento di ricerca un po’ sciocco e frivolo: alcuni si chiederanno come mai i ricercatori di Oxford sprechino il loro tempo per trarre conclusioni così inutili…
Prima di tutto, devo dire che sono sorpreso della quantità di riscontri che questo lavoro ha ricevuto. Tuttavia credo che l’estesa copertura mediatica riveli come questo sia un argomento di interesse per molte persone in tutto il mondo e dunque non sia “sciocco” né “frivolo”. Aggiungo che è una reazione comune nei confronti dei risultati della biologia evolutiva il dire che si tratti di “conclusioni ovvie” e “inutili”; ma ciò è dovuto in parte al fatto che tali risultati sono in consonanza con le vera vita della gente e che le spiegazioni sono ingannevolmente semplici. Per esempio, se il nostro risultato fosse stato che le persone coinvolte nelle relazioni sentimentali hanno lo stesso numero di amici, o anche di più, allora sono certo che molta gente avrebbe commentato che un simile risultato era ovvio. Se tu chiedessi a 100 persone di predire il risultato, non sarei sorpreso se un terzo prevedesse un aumento, un terzo una sostanziale equità e un terzo invece una diminuzione. Il risultato della ricerca proverà dunque l’ovvio a quel terzo di persone a cui capiti di essere nel giusto.
Lei quindi è uno “studioso” di relazioni sentimentali…?
Beh, si e no. Questo era solo un piccolo studio nella mia carriera; e ogni studio fornisce le risposte a una parte di un puzzle. Molti studi messi insieme nel corso del tempo servono a fornire un corpo di prove a sostegno di particolari teorie. Per questo nel frattempo ho tralasciato quella ricerca e ora sono concentrato sull’economia comportamentale: ma potrei ritornarci sopra un giorno. Se non lo farò, allora magari qualcun altro continuerà la mia ricerca.
Ci spieghi allora il fine scientifico di questi studi.
Nella fattispecie il lavoro era parte di un più vasto corpo di lavori che servono ad approfondire i costi e i benefici di ogni relazione, di come la gente si senta a riguardo, di quanto sia cooperativa e verso chi lo sia. L’idea che ogni relazione comporti dei costi è contestata da alcuni ricercatori e richiede test empirici. In senso lato, stiamo comprendendo sempre meglio come gli individui non siano degli isolati “produttori di decisioni” che agiscono razionalmente, ma siano radicati piuttosto all’interno di contesti sociali, che cercano di modificare e dai quali, a loro volta, sono modificati. Ciò ha delle ripercussioni in molti aspetti della nostra vita, da quella individuale su su fino a quella sociale: il diffondersi di malattie, i comportamenti come il fumo o l’obesità, i network economici e i contesti decisionali. Da un punto di vista ancora più generale, analizziamo gli esseri umani all’interno di un contesto evolutivo e li compariamo e li mettiamo a confronto con altri animali sociali come i nostri cugini primati.
Per entrare nel dettaglio, questo lavoro stava verificando l’ipotesi che le persone, in situazioni che sottraggono tempo alla loro vita sociale, possano avere minori relazioni strette in grado di fornire loro aiuto. Lo studio si proponeva di osservare la gente nei processi educativi o nelle relazioni sentimentali, come due tra le molte possibili forme di limitazione del tempo a nostra disposizione. Abbiamo comprovato la sussistenza di costi sociali in entrambi i casi, ma i media si sono interessati solo al caso delle relazioni sentimentali. Questo lavoro analizzava anche il ruolo dei famigliari all’interno del contesto sociale su cui gli individui possono contare in caso di bisogno e abbiamo scoperto che le persone che avevano più fratelli e sorelle non per questo avevano più membri nel loro “contesto di supporto”, dimostrando così che non è la disponibilità concreta di relazioni percorribili a determinare la grandezza del nostro gruppo sociale di riferimento. Questa classificazione dei famigliari era anche in accordo con la teoria della Fitness Inclusiva (più comunemente conosciuta come “Selezione Parentale”), che è una teoria che ha avuto un vasto successo e una larga influenza dalla biologia evolutiva alla zoologia.
Personalmente penso che valga sempre la pena conoscere meglio la natura umana, per meglio capire noi stessi, le nostre azioni e i nostri sentimenti. Inoltre comprendendo gli altri diventiamo forse anche più tolleranti nei loro confronti. Le persone che ora conoscono questo lavoro possono essere potenzialmente più attente a non sviluppare sentimenti di risentimento nei confronti degli amici del loro nuovo partner, capendo che questi hanno già un’ inclinazione naturale, in qualche caso, a comportarsi così. Le persone che costruiscono una nuova relazione, dal canto loro, possono stare potenzialmente più attente a non dare i loro amici per scontati e ad assumere comportamenti atti a mantenere queste relazioni. E ciò mi sembra evidentemente utile.
Ma qual’è esattamente il suo ramo di studi? Di cosa si occupa? Antropologia evolutiva o come la vogliamo chiamare?
E’ meglio fare una descrizione del mio lavoro piuttosto che ragionare per nomi di istituto o di dipartimento. Io sono un biologo evolutivo specializzato in “evoluzione sociale”. Ciò significa che uso la teoria evolutiva per predire il comportamento e le decisioni degli organismi sociali. Attualmente mi occupo degli esseri umani, ma in precedenza mi occupavo delle vespe parassite. La mia carriera è cominciata all’Istituto di Biologia Evolutiva dell’università di Edimburgo dove ho completato un rigoroso corso di studi sulla teoria evolutiva per il mio dottorato. Quindi mi sono spostato all’Istituto di Antropologia Cognitiva ed Evolutiva (ICEA) di Oxford, anche se ora lavoro al dipartimento di Zoologia. Questi nomi riflettono la storia delle differenti divisioni filosofiche, dei differenti modi di suddividere il mondo. Storicamente Oxford suddivide la biologia in zoologia, scienze delle piante e antropologia, anche se questo non è un modo molto moderno di vedere il mondo; ragion per cui a Edimburgo si usa una ripartizione diversa. Ovviamente, usando la vecchia divisione, i miei interessi spaziano dalla zoologia all’antropologia.
Per rispondere alla tua domanda l’ICEA è in effetti l’insieme di due dipartimenti (quello dell’antropologia evolutiva e quello della cognitiva) ma è anche un modo di separare questi stessi dalla più comune antropologia. L’antropologia evolutiva studia come gli umani si evolsero, da quali antenati, dove, quando e su che cosa i nostri comportamenti ancestrali furono simili ai nostri comportamenti moderni. Questioni centrali possono essere: “Quando la monogamia si evolse nella nostra stirpe?”, oppure “Quale era la dimensione tipo dei gruppi dei nostri avi?”, “Quando sviluppammo cervelli così grandi?”, o ancora “Cosa è esattamente un amico?”. Di nuovo, l’amicizia sembra un dato ovvio: eppure allo stato attuale delle cose è molto difficile definirla ed è senza dubbio molto rara negli animali, e pertanto richiede una spiegazione. Gli umani sono spesso spacciati per una specie straordinariamente cooperativa, e siccome la cooperazione è difficile da spiegare in termini darwiniani, ciò pone un problema. Il dipartimento di antropologia cognitiva è più psicologico e meccanicistico e prova a spiegare le inclinazioni processuali che i nostri cervelli hanno ereditato a causa del nostro passato. Una questione su cui lavorano spesso è: perché così tante persone hanno un’inclinazione religiosa? Ma non sono ben informato sul loro lavoro, per cui non posso commentarlo a dovere.
Lei è a conoscenza di come il suo lavoro, così complesso e vario, viene magari un po’ banalizzato dai media all’estero, come ad esempio è successo con la Repubblica in Italia?
No, non ne ero affatto a conoscenza. La Repubblica mi ha scritto un’e-mail e io ho risposto: ho visto l’articolo ma non so leggere l’Italiano. Non ho idea di quante persone l’abbiano letto, né se qualche altro giornale si sia occupato della cosa. Le lenti dei media semplificano e distorcono sempre i resoconti scientifici, anche se ciò è in parte necessario, dato che fanno un “riassunto” degli articoli scientifici. Spero che i lettori interessati siano spinti a cercare oltre, ma sono sicuro che la gente, se legge l’intero articolo (anziché solo il titolo), possa scoprire che la verità è di norma in qualche modo più sottile e complessa. Noi siamo creature complicate con spiegazioni complicate, ma i media hanno bisogno di storie semplici. Allo stesso modo vorrei che la gente potesse credere che gli scienziati sanno di quali ricerche c’è bisogno. Un esempio recente nel Regno Unito è stato quello di un lavoro molto ben fatto dove si metteva in luce come le anatre preferissero la “doccia” al “bagno” e come le docce fossero migliori per la loro salute (o qualcosa del genere). Tuttavia i media criticarono aspramente l’utilità di un tale lavoro, sostenendo che fosse ovvio. Ma non lo era. Anzi, la ricerca ebbe grosse implicazioni finanziarie per l’industria dell’allevamento delle anatre e per il benessere degli animali.
I lettori dei nuovi resoconti scientifici dovrebbero realizzare due cose: i media ridurranno all’osso l’articolo scientifico per includere solamente gli elementi dal titolo più accattivante (ed infatti, nel mio caso, gli effetti sulla grandezza del network sociale causati dalle perdita del tempo dedicato all’educazione è stata ignorata dai media); non sono gli scienziati a proporre il loro lavoro all’attenzione dei media o a spacciarlo come un articolo che fa notizia, come poi i media lo presentano.
Se le prove vi sembrano poco convincenti e le conclusioni ingiustificate, allora imputate l’esagerazione ai media, prima che agli scienziati. Il lavoro più significativo che ho fatto era sulle vespe parassite, in cui ho verificato teorie chiave sulle vespe selvatiche sul campo. I media non hanno dimostrato alcun interesse in questo pur prezioso lavoro; pertanto, per cortesia, non giudicate uno scienziato dall’attenzione che i media gli riservano: questo non è il modo in cui noi scienziati ci giudichiamo a vicenda.
Intervista e traduzione a cura di Andrea Giannini