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Dalle aule di via Balbi alle celle della casa circondariale di Marassi, quando un’ora di Storia contemporanea alla settimana diventa molto di più di una semplice lezione. "Era Superba" ha incontrato il professor Roberto Maccarini, docente a contratto dell’Università di Genova e volontario in carcere
Abbiamo già affrontato, qualche settimana fa, il delicato tema della rieducazione dei detenuti parlando del concordato recente per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità da parte dei detenuti “messi alla prova” in uffici del Comune. Mi è capitato, successivamente, di venire a conoscenza di un’iniziativa particolarmente interessante, anche e soprattutto perché è nata principalmente per la buona volontà di un privato. In questo caso si tratta del professor Roberto Maccarini, docente di Storia contemporanea alla Scuola di Scienze umanistiche dell’Università degli Studi di Genova, che tiene ormai da alcuni anni lezioni ai detenuti del casa circondariale di Marassi, puramente a titolo volontariato.
Dunque professore, da quant’è che conduce questa attività e che cosa l’ha spinta a iniziare?
«Sono circa tre anni ed è nata come un’azione volontaria, personale sorta in conseguenza di un impegno istituzionale, cioè la necessità di fornire i comuni strumenti didattici a una persona detenuta. Avevo chiesto di poter avere accesso alla persona direttamente e, di conseguenza, sono stato ammesso a vedere questo studente nel carcere di Marassi. Al primo incontro ne sono seguiti altri quattro o cinque, sempre di circa un’oretta, in modo tale da verificare che questo detenuto-studente riuscisse a seguire le indicazioni che gli avevo dato la prima volta e le volte successive e, conseguentemente, di valutare il suo stato di preparazione, per considerare anche se era in grado di sostenere l’esame. Questo, in effetti, è poi avvenuto e il detenuto-studente ha sostenuto con profitto l’esame della disciplina, riportando per altro una buona votazione del tutto meritata, senza che ci siano state inclinazioni a buonismi legati alla sua condizione. In quella circostanza, con l’educatrice con la quale mi interfacciavo che era stata il trait d’union tra lo studente e l’università, abbiamo scambiato qualche chiacchiera e ho dato la mia disponibilità a svolgere una qualsiasi tipo di attività interna alla struttura. Successivamente è stata valutata insieme alle autorità carcerarie e agli educatori la possibilità di intraprendere qualche iniziativa in tal senso e così si è dato il via a questo progetto».
Che cosa insegna ai detenuti?
«Insegno storia contemporanea con la cadenza di un’ora a settimana, corsi molto generali ma anche molto vari: si passa da una storia politica a una storia economica o economica del turismo, storia del continente americano, nordamericano in particolare, degli Stati Uniti ancora più nel dettaglio. Insomma, molti ambiti molto estesi, un ampio spettro di possibili categorie e insegnamenti storici».
Chi frequenta le sue lezioni?
«Solitamente dalle dieci alle quindici persone. Quando non sono sorte difficoltà specifiche (come il trasferimento dei detenuti a un’altra struttura) le frequenze sono state abbastanza costanti in quasi tutte le sezioni in cui sono stato mandato».
Che differenza c’è tra una sua lezione universitaria e una a Marassi?
«Le lezioni sono molto diverse perché quelle in carcere sono molto più generiche, condotte molto più a braccio per non appesantire troppo il dialogo con persone che hanno un grado di istruzione molto differenziato. Io espongo, racconto dei fatti storici e spero che questi stimolino delle riflessioni nelle persone che mi ascoltano per accrescerne il senso critico. Questo era lo scopo: creare un rapporto con persone che, indubbiamente, se sono lì ci sarà un motivo ma che, nello stesso tempo, vivono talvolta situazioni personali di difficoltà (oltre ovviamente alla condizione di privazione della libertà), hanno rapporti molto rarefatti con l’esterno e relazionarsi con una persona del tutto diversa dal loro ambito famigliare, dalle loro circostanze di provenienza, può essere un qualcosa che rompe la quotidianità e permette loro di fare considerazioni e ragionamenti ulteriori, anche se non avvezzi specificatamente allo studio delle discipline storiche. Io ho sempre cercato di essere molto semplice nell’esposizione, aperto ai loro interventi, anche a quelli più devianti rispetto al focus della lezione. Ho sempre cercato di essere una persona che ascoltava e con la quale ci si poteva aprire in maniera diversa rispetto l’ordinamento, la gerarchia, le abitudini di quell’universo in cui vivono; un’ora di libertà di pensiero. Ecco, invece che avere un’ora di libertà del cortile io cerco di dare un’ora di libertà di pensiero.
Secondo lei, per quale motivo i detenuti scelgono di partecipare alle sue lezioni? È solo una strategia per fare bella figura col magistrato di sorveglianza o c’è di più?
«Per quanto posso aver in questi anni percepito, i detenuti tendono a provare il maggior numero di attività che vengono proposte, che rompono la routine della vita carceraria. Ovviamente, la frequentazione a questo tipo di incontri è legata all’interesse che stimoli in loro: se riesci a cogliere un po’ del loro interesse e a creare un rapporto di do ut des, di input e output, allora riesci nell’obiettivo che ti eri preposto. È poi la persistenza, la regolarità di frequenza che testimonia o meno il loro interesse; che, comunque, è legato soprattutto al fatto di avere un rapporto con un estraneo al di fuori di quelli che sono gli ambiti familiari o quelli più strettamente giuridici, legali o di sorveglianza della struttura carceraria stessa».
Per i detenuti è solamente uno svago o qualcosa che davvero potrà aiutarli a cambiare la “prospettiva”?
«La funzione in questo caso non è tanto di svago. Per “svago” si intende un qualche cosa posto in essere per non pensare alla propria situazione; questo secondo me vale in una misura minore perché è troppo breve il tempo in cui si svolge l’attività. Contemporaneamente, non ho la pretesa di poter cambiare la loro forma mentis, di nuovo perché è troppo ridotto il tempo con cui sto a contatto con persone tra loro molto eterogenee. Penso che la finalità sia quella di capire che non c’è solo il mondo che immaginano, fuori, ma c’è qualcuno che prova a entrare e a confrontarsi con loro; rafforza un po’ un senso di identità personale. Ecco, se si arriva a quello, è già tanto. Si vuole sviluppare un po’ di più un senso critico di fronte a riflessioni totalmente lontane, come circostanze e come tempi, rispetto a quello che può esser successo loro; una riflessione che magari stimoli anche l’autocritica ma, nello stesso tempo, un senso di identità».
Consiglierebbe ai suoi colleghi, storici o professori di altre materie, di partecipare a un’iniziativa simile?
«Sì, perché ciascuno per le proprie competenze può fare quello che io faccio con le discipline che conosco. Sicuramente sarebbe più variegata l’offerta e si riuscirebbe a intercettare meglio le singole personalità. Io posso incontrarne alcune con sensibilità vicine a quello che è l’ambito di mia conoscenza ma tralasciarne altre che sono un po’ più distanti».
Lei ai carcerati dà la sua conoscenza, possiamo dire; loro a lei danno qualcosa?
«Questa è una domanda molto importante. Io dico sempre, quando inizio le mie lezioni, che sono più loro che danno a me di quanto io dia a loro, perché mi hanno permesso in questi anni di incontrare una realtà che conoscevo solo per interposta persona. Il contatto con un’umanità così variegata e così diversa non può che arricchire umanamente anche chi va lì con la modestia di insegnare davvero qualche cosa. Che, tra l’altro, è un contatto molto rispettoso delle regole del carcere, un contatto di grande coerenza di queste persone: mi era stato raccomandato, ed è un impegno che ho anche firmato con la struttura carceraria, di non far assolutamente mai da ponte a qualsivoglia tipo di richiesta di un carcerato; ecco questo è un aspetto importante perché ormai in tre anni nessuno mi ha mai detto nemmeno di portare loro un nichelino, una fotografia, c’è stata da parte loro una correttezza ai regolamenti davvero notevole. Le uniche richieste sono state al limite di qualche approfondimento delle cose che ho spiegato e, quando ho potuto, ho portato qualche libro, ma in tutti questi anni non c’è mai stato nemmeno un caso di una richiesta personale».
Un’ultima domanda, più che altro una curiosità: com’è lo studente detenuto rispetto allo studente universitario “classico”?
«Beh [ride…], se si può parlare di studenti, non hanno il patema di dover sostenere l’esame, e non avendo questo pensiero secondo me sono molto più aperti nell’interconnessione col docente, nell’interscambio di opinioni sono molto più liberi per il fatto che manca quello che è il…
…timore reverenziale?
Esatto…manca quello che poi è l’obiettivo che vuole raggiungere uno studente, ossia il superamento dell’esame, per cui ci si concentra su quello che dico io per poi riuscire a rispondere in sede di esame. Mancando questo riscontro, in queste circostanze il contatto è molto più libero, molto più aperto».
Se non un apprezzamento all’iniziativa del professor Maccarini e la speranza che altri seguano il suo esempio, c’è ben poco da aggiungere. Forse basta ricondurre l’attenzione alla frase più emblematica di questa intervista, “un’ora di libertà di pensiero”: qualcosa a cui anche noi “liberi” dovremmo davvero fare attenzione, perché non ci sono solo prigioni di mattoni e ferro.
Alessandro Magrassi
Bravo,perché senza interesse e non per una costruzione cinica di un curriculum da spendere !