In occasione della festa-spettacolo alla scoperta della Genova medievale, organizzata dal movimento giovanile della Comunità di Sant'Egidio, facciamo quattro chiacchiere con Sergio Casali, uno dei volontari della comunità
Venerdì 19 luglio a partire dalle ore 17, nelle sale del Museoteatro della Commenda di Prè, gli studenti movimento giovanile della Comunità di Sant’Egidio Università Solidale animeranno lo spettacolo in costume “Sogno di una notte medievale”.
Una pièce in forma di gioco rivolta a bambini e ragazzi dei quartieri “periferici” genovesi, che la Comunità di Sant’Egidio segue tutto l’anno alle “Scuole della Pace” del Cep, di Begato, del campo rom di via Adamoli, di Cornigliano e del Centro Storico, e che -grazie alle spiegazioni degli studenti- saranno trasportati nell’atmosfera della Genova dell’epoca medievale.
Il progetto è realizzato grazie alla collaborazione tra Mu.MA –Istituzione Musei del Mare e delle Migrazioni, che ha messo a disposizione i locali del Museoteatro della Commenda, del Consorzio Sol.co Liguria e di Università solidale, il movimento volontario che -all’interno della Comunità di Sant’Egidio- raccoglie centinaia di giovani di tutte le facoltà dell’Ateneo genovese.
Prendendo spunto dall’evento imminente, per fare luce sulle iniziative della Comunità e dell’Università Solidale siamo andati a parlare con Sergio Casali, uno dei volontari di Sant’Egidio, insegnante di professione e partecipante attivo alla vita del gruppo, tanto che ne è uno dei punti riferimento.
Partiamo dal dato contingente: “Sogno di una notte medievale”
«Si tratta di un’iniziativa promossa dal gruppo dei giovani che fanno parte di Università Solidale. Comunità di Sant’Egidio e Università Solidale sono una stessa realtà: l’ultima fa parte della prima, ne è una propaggine. Sempre su base volontaria, essa è costituita da un folto gruppo di giovani universitari che fanno riferimento a Sant’Egidio per l’organizzazione di iniziative di solidarietà, unendo all’aspetto culturale quello relativo all’aiuto del prossimo. Le iniziative del gruppo sono tante, e non hanno tardato a farsi conoscere per tutta Genova: l’iniziativa più recente risale allo scorso 31 maggio, quando è stata organizzata una cena per i senza dimora nell’atrio del palazzo del Rettorato di Via Balbi 5. E ancora: quelle rivolte ai bambini delle Scuole della Pace, ai migranti, ai disabili, agli anziani, e a tutti quei gruppi sociali che vivono disagi e problematiche varie. I giovani volontari si mettono a servizio dei più piccoli, per ricucire il tessuto strappato di una città che, a volte, vive divisa in due e in cui ancora centro e zone limitrofe faticano a trovare la giusta integrazione. Quello che ci entusiasma di questo progetto è che dei ragazzi giovani concretamente rinuncino a parte del loro tempo per dedicarsi alla creazione di questi momenti di comunione: questo tipo di sensibilità nei ragazzi di oggi ci fa ben sperare per il futuro. Questi ragazzi -contro ogni luogo comune sui “giovani d’oggi”- saranno, domani, degli adulti attenti e sensibili ai problemi degli altri».
La Comunità di Sant’Egidio a Genova: da quando e perché
«La Comunità vera e propria è nata a Roma nel 1968 all’indomani del Concilio Vaticano II, è un movimento di laici cui aderiscono più di 60 mila e che si impegna nella comunicazione del Vangelo e nella carità in Italia e in 73 paesi del mondo. Il movimento crea momenti di incontro con realtà normalmente lontane e “difficili”, il tutto in maniera competamente volontaria. A Genova, il gruppo è presente dal 1976 e ha dato vita a vari progetti interessanti e utili a ricucire un tessuto sociale spesso lacerato e segnato da profonde contraddizioni. Il primo nucleo si è formato a Bolzaneto, grazie all’azione di un piccolo gruppo che, nel tempo, si è esteso sempre più, a comprendere una schiera di volontari sempre più folta. Così siamo arrivati nel centro storico prima, e nelle altre periferie, poi. La Comunità ha iniziato a operare su più fronti, con diverse problematiche: dal sostegno a persone con problemi di tossicodipendenza, ai detenuti delle carceri, agli immigrati, gli emarginati delle periferie, i bambini e soprattutto gli anziani».
Una delle prime operazioni -e tra quelle meglio riuscite- è quella svolta dalla Comunità nel quartiere di Cornigliano, nel Ponente genovese: qui, il lavoro dei volontari è iniziato negli anni ’70-’80, all’epoca in cui la “Banda dei Puffi” -formata da ragazzini in età compresa tra gli undici e i quindici anni- seminava terrore nella zona. È stato proprio per colmare lo squarcio creato dalla violenze perpetuate all’epoca e per ridare speranza ai giovani del quartiere che alcuni giovani studenti genovesi crearono la prima Scuola della Pace, spazio alternativo alle logiche della violenza, lontano dalla strada, dalla droga, dallo spettro dell’Aids.
Sergio, come avete vissuto questa iniziativa all’epoca e a quali problematiche si dedica oggi la Comunità?
«Certamente quella di Cornigliano è una delle operazioni più importanti di recupero e di sostegno che abbiamo svolto. Ed è anche grazie alle iniziative della Comunità, in questi anni Cornigliano è molto cambiata e ha assunto la moderna fisionomia di quartiere bello e risanato. Oggi, le sfide per la nostra associazione non sono finite: dal problema degli immigrati e della loro accoglienza, a quello degli anziani, sempre più numerosi. Genova è una città vecchia, la più vecchia d’Europa, se non del mondo! Per questo dobbiamo combattere la piaga della solitudine, la più grande delle povertà e la principale emergenze della nostra epoca. Altro che crisi economica: la più grande miseria è l’essere soli. I nostri anziani, in istituto o spesso completamente lasciati a se stessi, da soli si lasciano morire e non riescono a superare le difficoltà che, in fondo al loro percorso di vita, sono chiamati ad affrontare. La Comunità prova a sconfiggere questa “piaga”».
Socialità e attenzione alle problematiche e ai disagi del prossimo: la risposta delle persone?
«Nonostante quello che si potrebbe pensare, oggi la società è abbastanza pronta e ricettiva nei confronti delle problematiche sociali. Quello che cerchiamo di fare è proporre iniziative ad ampio spettro, per aprire un discorso che sia veramente “sociale” e per mandare un messaggio alla comunità in cui viviamo: la città è di tutti, non ci sono cittadini di serie A e di serie B. Chi vive in periferia, chi è senza caso, chi è anziano o disabile o migrante non deve sentirsi escluso dal tessuto sociale. Per fare in modo che tutti qui si sentano “a casa” è importante “fare rete”. Noi ci impegniamo non solo in prima persona, accorrendo a soccorrere i bisognosi dopo che riceviamo segnalazioni, ma cerchiamo soprattutto di coinvolgere nel processo di “cura del prossimo” il numero più grande possibile di persone, diffondendo il nostro messaggio. Iniziamo coinvolgendo soprattutto proprio coloro che ci inviano segnalazioni: chi ci cerca per mettere in luce problemi di vario tipo è generalmente più disposto a entrare in contatto con noi e farsi portavoce del nostro progetto solidale. Solo creando un nucleo solido dislocato sul territorio e interagendo con gli altri possiamo aiutare chi ci sta attorno. Cresciuti in una società in cui si affermano sempre più le dinamiche di un individualismo selvaggio, siamo per la maggior parte assetati di rapporti umani, bisognosi di vicinanza, pronti a rispondere all’indifferenza. Solo impegnandoci in prima persona potremmo sconfiggere il razzismo e la disumanità».
Elettra Antognetti