In controtendenza con le ultime dichiarazioni riprese da tutti i giornali del premio nobel Joseph Stiglitz, facciamo un passo indietro e andiamo ad analizzare le parole dello stesso Stiglitz sulle responsabilità dell'euro e della moneta unica; dichiarazioni rimaste, guarda a caso, un po' nell'ombra
In questi giorni circola la notizia che i premi nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen, tradizionalmente critici verso il progetto di unificazione monetaria, si sono espressi a favore di quella che per comodità chiamiamo la posizione del «più Europa»: ossia maggiore integrazione fiscale, bancaria e legislativa in risposta ai difetti dell’attuale assetto. La notizia è vera. In particolare ci sono pochi dubbi che i due, quando parlano di «manipolazione che sta avvenendo in alcuni discorsi in Francia e in altri paesi europei», stiano pensando proprio a Marine Le Pen e Beppe Grillo.
Naturalmente la citazione è stata subito ripresa sul web da chi aveva bisogno di un modo per zittire gli euro-scettici e le loro velleità. Ma forse prima di dare pareri affrettati occorre attendere. Per esempio potremmo lasciare parlare lo stesso Joseph Stiglitz, al quale, qualche mese fa, durante un incontro organizzato da UBS a Basilea, è stata rivolta questa esplicita domanda:
«Lei sembra suggerire che non c’è nulla che non possa essere risolto con più solidarietà europea: e a livello speculativo sono d’accordo con lei. Tuttavia, a voler essere politicamente realisti, non penso che questa soluzione sia imminente. Non vedo grandi assegni firmati da politici tedeschi per finanziare, ad esempio, i disoccupati spagnoli o greci. Per cui, se pensiamo in questa prospettiva e ci caliamo nei panni di un capofamiglia trentenne spagnolo o greco senza prospettive di occupazione, non sarebbe meglio se tutti i paesi insieme lasciassero l’eurozona?».
Ecco la risposta di Stiglitz:
«Come ho detto nel corso del mio discorso, la realtà è che, se le riforme che ho descritto fossero realizzate, la Germania non avrebbe bisogno di firmare grossi assegni. È più probabile, anzi, che debba pagare un costo maggiore non facendole, queste riforme. Tuttavia penso che la descrizione della realtà che lei ha fatto, a proposito del modo in cui il dialogo è portato avanti in Germania, sia assolutamente corretta: ed è una delle ragioni per cui sono un po’ pessimista, se penso al futuro dell’Europa. Sarà una faticaccia persuadere la Germania a fare queste riforme, anche se le costerebbero di meno. E questo conduce la Spagna e la Grecia ad affrontare un dibattito cruciale, una questione politica: cosa fare se la realtà è che queste riforme non ci saranno mai?
L’Europa rimarrà appesa alla speranza che Spagna, Grecia e gli altri paesi periferici continuino a pensare: “Stanno per arrivare ad aiutarci!”. Rimarrà appesa alla speranza che la gente non voglia lasciare l’euro; ma in pratica ci saranno così poche riforme che non accadrà mai nel breve periodo che i paesi emergano dalla depressione. Dunque il mio consiglio si dovrebbe muovere lungo le linee cui lei accennava. Probabilmente dovrebbero affrontare la realtà: non ci saranno riforme politiche che rendano l’euro percorribile per la periferia; la svalutazione interna non funzionerà; lasciare l’euro sarà doloroso, ma restarci sarebbe ancora più doloroso. Tra gli economisti circola una soluzione più facile, ipotizzata da molte persone: è la Germania che dovrebbe uscire. Se la Germania uscisse, il valore dell’euro andrebbe giù e la competitività dei paesi del sud sarebbe salirebbe sostanzialmente». [Il video e la trascrizione inglese li trovate qui].
Il pensiero di Stiglitz non è equivocabile: la crisi è colpa dell’euro, perché crea squilibri di competitività dai quali si può uscire solo o con riforme che portino a trasferimenti di finanziamenti dai paesi più competitivi (soluzione preferibile, ma non probabile) o con una uscita dall’unione (soluzione non preferibile, ma probabile), meglio se attuata attraverso l’adozione di un nuovo marco da parte della Germania (un’ipotesi, questa, di cui si è discusso giorni fa anche al convegno dell’associazione «Asimmetrie» e in cui per ora non occorre addentrarci).
L’analisi è assolutamente condivisibile. C’è solo un punto da chiarire: per quale motivo sarebbe preferibile un’unione di trasferimento, rispetto alla dissoluzione dell’eurozona? A questo riguardo bisogna notare che è evidente lo scetticismo dello stesso Stiglitz circa le reali possibilità di una maggiore integrazione, visti i pochissimi progressi che si sono registrati: e già questo basterebbe per concludere che la questione è puramente accademica o d’immagine. Tuttavia per amore di discussione chiediamoci pure: perché dovremmo desiderare «più Europa»?
Un primo motivo è che certamente, in astratto, sarebbe la soluzione più semplice. In fin dei conti l’eurozona potrebbe funzionare già così com’è, senza nemmeno bisogno di modificare i trattati, se solo esistesse un po’ di solidarietà reciproca: e questa sarebbe indubbiamente una via molto più agevole che mettersi a studiare soluzioni per reintrodurre monete nazionali. Ciò non implica, tuttavia, che una dissoluzione ordinata sia impraticabile. Al contrario, secondo Stiglitz dividersi potrà anche essere doloroso; ma non più doloroso di quello che stiamo patendo ora, restando dentro l’euro a queste condizioni. Pertanto, anche se è comprensibile il fastidio di un mite economista per il fatto di essere sempre tirato in ballo dal leader della destra francese, dall’altra parte non si può nemmeno criticare Marine Le Pen perché non cita Checco Zelone quando risponde a quei giornalisti convinti che uscire sia “impossibile”.
Altre motivazioni per auspicare «più Europa» se ne possono trovare: ma non potranno che essere motivazioni politiche. Il buon senso economico, infatti, ha già indicato chiaramente quale è la strada che oggi dobbiamo seguire: unirsi, altrimenti uscire. Da questo punto in poi, però, ogni decisione per stabilire se vogliamo davvero stare insieme o meno, se e quanto credito concedere ancora al progetto di unificazione, se dobbiamo desiderare una grande realtà federale europea; ebbene questa decisione dipenderà esclusivamente da ragionamenti politici: e questo Stiglitz lo riconosce molto onestamente. Dunque, in definitiva, il processo di integrazione non è una strada imposta dalle inoppugnabili ragioni della scienza economica: è un cammino che ha senso percorrere solo se si condivide una visione e una precisa volontà politica.
Ora, quanto alla visione politica, non c’è dubbio che Stiglitz, come tanti altri, sia favorevole a una maggiore integrazione. Tuttavia il suo parere in questo senso è molto meno rilevante, perché è evidente che un conto sono le convinzioni scientifiche degli economisti, un altro conto i loro giudizi politici. Oltretutto a un’analisi più approfondita rischiano di venire a galla condizionamenti e pregiudizi radicati. In particolare è difficile sfuggire all’impressione che da quella sponda dell’Atlantico guardino ai nascenti Stati Uniti d’Europa come se fossero gli Stati Uniti d’America con 200 anni di ritardo: e dunque, per definizione, un progetto intrinsecamente buono. Se così fosse, però, sarebbe una visione politica a dir poco naif. Per quel che mi riguarda la realtà è un’altra, ben più complessa e con pesanti ombre sulla presunta “bontà” complessiva del progetto e sulla sua sostenibilità. Non nego a priori che possano esistere alti ragionamenti geopolitici in merito all’idea di fare un’Europa federale: ma registro il fatto che fino ad oggi non se sono sentiti molti. Quanto invece alla volontà politica, parlando con il dovuto il rispetto, non è una questione che possa essere appaltata a Stiglitz o altri: quando bisogna stabilire cosa fare, infatti, è ancora e sempre una questione di democrazia.
L’Europa unita si può fare: il problema è che bisogna volerlo. E per sapere se lo vogliamo davvero non c’è bisogno di un referendum. Basta porsi una banale domanda: perché non si dice che è solo una scelta politica e non si chiamano i popoli a esprimersi? Perché nei giornali o in televisione non si ammette che fuori dall’euro non ci sono le sette piaghe d’Egitto e che possiamo tranquillamente commerciare con la Cina anche rimanendo nei vecchi confini nazionali? Perché non si dice ai popoli che sono liberi di scegliere quello che vogliono? La risposta è facile: e la conoscete già. È lo stesso motivo per il quale grandi economisti come Alesina e Giavazzi fanno terrorismo sulle pagine del Corriere delle Sera. È lo stesso motivo per cui Stiglitz può piccarsi per essere stato tirato in ballo a sproposito da Marine Le Pen; ma non può vantarsi – guarda un po’ – di essere stato chiamato a testimone dai sostenitori dell’euro. Perché questa unificazione europea è un progetto elitario che sopravvive grazie alla menzogna.
Solo raccontando ai popoli che non hanno altra scelta, solo minacciando il terzo conflitto mondiale, solo spacciando liberi pareri personali per verità inoppugnabili, solo sopprimendo le più banali conquiste scientifiche, solo confondendo e spaventando questo progetto può restare in piedi. Ma in un contesto realmente democratico, dove alla gente non venisse nascosto sistematicamente quello che Stiglitz tranquillamente ammette, ossia che l’attuale disastro economico è colpa è dell’euro e che è possibile tornare indietro, questo sistema non sarebbe mai esistito.
Andrea Giannini