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Alcune delle norme del nuovo documento suscitano dei dubbi. Ne abbiamo parlato con Federico Rahola, docente di Sociologia all'Università di Genova: «Misure quasi detentive»
Il regolamento proposto dal Prefetto di Genova, Fiamma Spena, presenta alcune novità. Oltre a ribadire che la titolarità del diritto di rimanere all’interno dei centri di accoglienza è riservata ai richiedenti asilo, o ai titolari del diritto di protezione internazionale, e a stabilire alcune norme basilari di convivenza, riguardanti la pulizia e la gestione degli spazi comuni, impone nuovi doveri e nuovi divieti che non erano contemplati in precedenza. La violazione di queste regole è punita, talvolta, addirittura con la revoca delle misure di accoglienza. Abbiamo chiesto a Federico Rahola, docente di Sociologia all’Università di Genova, di commentare gli articoli del regolamento più significativi.
Uno dei punti del quarto articolo del regolamento, stabilisce che “L’ospite si impegna a rientrare nel centro entro le ore 21.30 durante la stagione autunnale/invernale ed entro le 22.30 durante la stagione primaverile/estiva. L’uscita mattutina dal centro non potrà avvenire prima delle ore 7.00. Deroghe agli orari di rientro e uscita potranno essere ammessi dal gestore del centro per giustificati motivi oggettivi o soggettivi.”
Bisogna notare che gli ospiti sono persone adulte, a cui dovrebbe essere garantita la libertà individuale di entrare e uscire liberamente da quella che, anche se provvisoriamente, è casa loro. Le strutture sono finanziate dalla Prefettura, che stabilisce con le cooperative che le gestiscono delle convenzioni e che elargisce a queste ultime dei fondi. Secondo l’opinione di Rahola, questa norma, che mira a evitare il fenomeno del “randagismo”, tira in ballo una questione importante: gli ospiti delle struttura, adulti e teoricamente liberi, vengono in realtà tenuti “al guinzaglio”.
«Gli immigrati che devono rispettare questa norma diventano così diversamente abitanti – dice Rahola – Tutto ciò introduce un nuovo modo di abitare, regolato da misure restrittive che, fra l’altro, violano le norme sull’aiuto internazionale». Infatti quanti godono della protezione internazionale sono solo in teoria individui liberi, come prevederebbe la legge. In realtà, sono posti in una situazione di inferiorità, sottoposti a un controllo che non è giustificabile dal punto di vista legislativo, né rispettoso della loro libertà in quanto individui.
«Si può anche fare riferimento al Decreto Minniti – continua Rahola – che mira a evitare gli assembramenti urbani: anche questo limita molto le libertà individuali, ma sinceramente non ne vedo il motivo. Non credo, infatti, che i gruppi di immigrati che si riuniscono in gruppetti in mezzo alla strada possano essere pericolosi… Non mi risulta, per esempio, che ci sia una propensione allo spaccio maggiore fra i migranti rispetto ad altri gruppi sociali, come sociologi, antropologi ecc...».
L’atteggiamento della Prefettura produce un effetto di criminalizzazione nei confronti della figura del richiedente asilo, «che si traduce in una forma di detenzione, in termini pratici – conclude il docente – in modo che queste persone non hanno modo di condurre una vita normale». Non si tratta però dell’unico ordine di problemi. In base a questa imposizione, gli operatori dei centri dovrebbero verificare che tutti siano rientrati nelle strutture negli orari stabiliti, ma questo compito dovrebbe essere svolto al di fuori del loro orario di lavoro. Ecco uno dei motivi per cui la proposta del Prefetto ha suscitato il malcontento anche di molti lavoratori dei centri di accoglienza.
Fra gli altri divieti, l’articolo successivo impone il “divieto assoluto di: introdurre e consumare alcolici, ospitare amici o parenti senza autorizzazione del responsabile della struttura di accoglienza, svolgere attività di accattonaggio di qualsiasi tipo (ad es. in strada, davanti ai negozi ecc..)”.
Di nuovo, ci troviamo davanti a limitazioni importanti delle libertà individuali. Il non poter bere sembra davvero ben lontano da una misura atta a tutelare la salute dei richiedenti/titolari del diritto di protezione internazionale. Il non poter avere ospiti, poi, non trova alcuna giustificazione razionale se non quella di voler aumentare il controllo sulle persone presenti nella struttura, ma non solo. Sembra che l’obiettivo sia quello del voler limitare le comunicazioni e i contatti fra gli immigrati, uno strumento che viene usato per indebolire i fronti di opposizione.
«Non possono avere ospiti, non possono avere una relazione di amicizia normale – riflette Rahola – Questo limite che viene imposto alla loro possibilità di scoprire il territorio e di comunicare con gli abitanti limita fortemente la possibilità di comunicare e quindi di crearsi un’opinione critica sulla realtà che li circonda. Come se fosse un minore, il richiedente asilo o chi ha già ricevuto lo status di rifugiato è completamente governato da strutture che lo prendono in carica in un ambito che è estremamente autoreferenziale. Un ghetto soffocante: ecco come definirei questo sistema di accoglienza, così regolato».
Sempre secondo il sociologo, si può fare un parallelismo con alcune istanze espresse dalla Giunta che si è recentemente insediata in Comune: «Sono state espresse opinioni contro al mercatino, (quello dei portici di Sottoripa), e addirittura contro quello che è stato definito lo scandalo dei cassonetti della spazzatura… Si è detto che è inammissibile che i cassonetti siano poco sicuri, in quanto c’è sempre qualcuno che ci rovista dentro». Ma che tipo di città può produrre provvedimenti di questo tipo? «Una città che riduce gli spazi informali in cui una quota significativa della popolazione povera ha cercato di sopravvivere – sottolinea Rahola – I migranti fanno paura in quanto poveri. Essi producono delle forme di sussistenza al di fuori dell’economia normale, e questo viene ostacolato. Il risultato è la produzione di uno spazio sociale estremamente selettivo». C’è chi sostiene, si potrebbe obiettare, che le norme che limitano la libertà d’azione dei poveri stranieri abbiano l’obiettivo di sostenere i poveri italiani, «ma non c’è alcuna norma a tutela di quest’ultimi, a fronte delle numerose che ostacolano gli stranieri!».
L’ultimo articolo stabilisce una punizione piuttosto severa per chi infrange alcune delle regole imposte agli ospiti dei centri. “L’accoglienza può essere revocata nei casi di: abbandono anche per un solo giorno del centro di accoglienza senza preventiva autorizzazione del responsabile del centro. L’ospite può essere autorizzato ad assentarsi dal centro per non più di tre giorni consecutivi per motivate ragioni di carattere oggettivo o soggettivo, previa autorizzazione del gestore; mancata frequenza senza giustificato motivo dal corso di formazione linguistica.”
Quella che viene imposta è un’obbedienza ferrea alle norme della struttura, a prescindere dalla loro sensatezza. Per quanto riguarda l’assenza dalla struttura, la regola sembra avere l’intenzione di produrre un controllo capillare sui movimenti degli ospiti, secondo il principio (più volte ribadito) “dove arrivi, rimani”. I corsi di lingua, infine, sono spesso inutili: incomprensibili per gli analfabeti, troppo semplici per chi, invece, ha studiato. Il risultato è che non solo gli insegnanti fanno una fatica enorme nel relazionarsi con la classe e nel tentare di trasmettere delle nozioni. La conseguenza prodotta da questa disattenzione nei confronti delle disparità della classe, rende le lezioni spesso una perdita di tempo.
«Ed ecco che torna la metafora del guinzaglio – commenta il professore – perché ciò che viene limitato è la libertà di movimento, osteggiata con ogni mezzo possibile, a ogni livello legislativo. Pensiamo a ciò a cui sono sottoposti in Italia il richiedente asilo e il rifugiato: limitazioni della libertà individuale e di movimento, e addirittura lavoro gratuito. Il lavoro gratuito per antonomasia è lo schiavismo. I soggetti sono vincolati moralmente a un patto di accoglienza. Devono essere grati dell’ospitalità che viene loro concessa. Devono sdebitarsi, ed ecco come: lavorando gratis. E poi, non essendo cittadini normali a tutti gli effetti, non sono liberi: sono in uno stato di subordinazione giuridica, vivono in uno spazio limitato, all’interno del quale è anche ridotta significativamente la loro possibilità di comunicare, di pensare, di farsi un’idea critica della società che li ha accolti e del quadro normativo che li costringe”.
Viene da chiedersi, a questo punto, come si possa considerare libero, democratico e “basato sul lavoro” un paese che accoglie in questo modo chi fugge dalla guerra e dalla povertà.
Ilaria Bucca