Il racconto di uno uomo finito per sbaglio in Centro Permanenza per il Rimpatrio. Da Genova a Bari, andata e ritorno
In questi giorni di scontro politico, aspro e a tratti disarmante, sui soccorsi in mare, abbiamo raccolto una storia “di terraferma”, dove la nostra democrazia e la nostra civiltà da tempo “sta facendo naufragio”. Una piccola e breve testimonianza che riporta prepotente la riflessione su un sistema, quello della gestione dello straniero senza diritti e documenti, fuori legge in quanto tale, che prosegue la lunga catena del sangue e della tragedia, che parte da lontano ma che arriva a pochi metri da noi.
E il terzo giorno più uno resuscitò, uscendo con le sue gambe dall’inferno in cui era stato scaraventato. Prese la sua vita, raggiunse la stazione, e dopo più di dieci ore era di nuovo a Genova. Sopravvissuto. Incredulo. “Italiani, non sapete quello che state facendo”.
Questa storia la raccontiamo partendo dalla fine, dal sedimento indelebile che ha lasciato nella vita difficile di un uomo, in Italia da quindici anni, che per una serie di errori e legali efficienze è stato scaraventato nel fondo melmoso della nostra democrazia. “Quando sono uscito ho dato quello che potevo a chi rimaneva, ma non ho preso contatti, non ho tenuto nomi nella mia testa, l’unica cosa che voglio è dimenticare quello che ho visto”. Ma noi non possiamo permettercelo, perché quello che ha visto è quello che succede ai margini delle nostre città, adesso, in Italia. Anno del Signore 2019. E in qualche modo ne siamo responsabili.
Povero Cristo, nome di fantasia, è un uomo arrivato dall’altra sponda del Mediterrano ad inizio degli anni duemila, con una laurea breve in tasca, insieme al sogno di una vita migliore. Ma l’integrazione non è facile: “Ho scelto di frequentare il meno possibile i miei conterranei – racconta – certo sarebbe stato più semplice, ma in questo modo si rimane stranieri”. Arriva un corso professionale, arriva il lavoro, ma anche l’alcool e i problemi. E una condanna, per rapina: “Un fatto che non ho commesso – tiene a sottolineare – ma che ho pagato con un anno di carcere”.
Ma il carcere, in questa storia, è solo un passaggio, un termine di confronto, uno strumento: “Io sono grato all’Italia, perché mi ha dato un’altra possibilità, con dottori e assistenti sociali che mi hanno aiutato”. Sì perché una volta uscito dal carcere arriva anche un decreto di espulsione. “Ho fatto ricorso, ottenendo la sospensiva e mi sono mosso per ottenere i documenti necessari per rimettere a posto la mia vita”. Ha un appuntamento in questura, a quale si presenta puntualmente, senza sapere che quella stessa sera avrebbe visto quello che non dovrebbe esistere.
In questura, infatti, non risulta il ricorso, le carte dei tribunali, non sono condivise con le questure, anche se il calendario segna 2019: “Ho sbagliato, non mi sono portato il documento dietro – ammette – e i poliziotti hanno fatto quello dovevano fare”. Il tempo di avvertire a casa, e poi l’attesa del trasferimento: “Sono stato accompagnato in aeroporto, e tra due poliziotti in borghese ho volato fino a Roma, e poi Bari, su aerei di linea”. Il tutto a spese nostre. Destinazione finale il Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Bari Palese, situato a poche decine di metri dallo scalo Karol Wojtyla del capoluogo pugliese. “Durante il viaggio mi hanno trattato bene – vuole precisare – e io che mi vergognavo della mia situazione, ho cercato di far vedere ai passeggeri che ero tra amici”.
Il Cpr di Bari Palese, inoltre, è stato il primo ad essere allestito nel 2017, in base alla normativa Minniti-Orlando, esponenti di quel Partito Democratico oggi in prima fila nelle manifestazioni contro la gestione dell’immigrazione di quel Salvini che non è altro che un “nano seduto sulla spalla di un gigante”
Un centro, quello del capoluogo pugliese, finito agli onori della cronaca per una recente rivolta dei suoi ospiti, lo scorso dicembre, le cui motivazioni, grazie a questa testimonianza sono chiare e lampanti, come riconosciuto anche da una recente visita del Garante nazionale delle persone private delle libertà, passata praticamente inosservata nel trambusto mediatico sull’argomento. Il Cpr di Bari Palese, inoltre, è stato il primo ad essere allestito nel 2017, in base alla normativa Minniti-Orlando, esponenti di quel Partito Democratico oggi in prima fila nelle manifestazioni contro la gestione dell’immigrazione di quel Salvini che non è altro che un “nano seduto sulla spalla di un gigante”.
Ma la “gita”, dicevamo, finisce presto, e dietro le porte del Cpr si dischiude un inferno fatto di follia, sangue e chimica. Dopo la registrazione di rito, arriva la visita medica: “Un infermiere, non un dottore, mi ha guardato, ha visto che stavo in piedi, mi ha chiesto se avevo qualche malattia e mi ha fatto andare”. Un minuto, scarso. “E poi mi hanno fatto entrare nel centro vero e proprio”.
La struttura è composta da capannoni, con dentro stanze, e dei cortili. Le telecamere sono solo fuori, come gli agenti e i militari, che non entrano mai, se non per prelevare chi è di turno per il rimpatrio.
Nessuno gli ha comunicato dove andare: “Vai e arrangiati, mi hanno detto”. Ma la freddezza dell’accoglienza viene subito dimenticata: “La prima cosa appena entrato che ho visto, praticamente sulla soglia, è stato un ragazzo nigeriano, che nudo si dimenava, sanguinante perché si era appena tagliato con qualcosa”. Questa scena si ripeterà molte volte in quei quattro lunghissimi giorni. “Ci ho messo poco a capirlo: lo dentro non esiste la legge, se non quella del più forte. Fortunatamente sono riuscito a trovare un letto, e qualcheduno mi ha dato una coperta e sono riuscito a sistemarmi”. Mettersi comodo per uno spettacolo che non voleva vedere. “L’igiene non esiste, nessuno pulisce i bagni, nessuno entra nelle stanze. Il cibo è scarso, con un bicchiere di latte al mattino, e un etto di pasta e un pezzo di pollo sia a pranzo che a cena”. Quello che non manca mai sono gli psicofarmaci: “Te li danno a richiesta e in quantità. Forse per calmare le persone, ma spesso il risultato è che la gente esce di testa”.
La notte fa freddo e il letto senza lenzuola non fa dormire: “Quasi tutti i vetri delle finestre sono rotti – racconta – perché in tanti hanno usano i cocci per tagliare e tagliarsi”. In teoria all’ingresso dovrebbe essere consegnato un kit, con una tuta, biancheria, lenzuola, sapone e asciugamani “ma spesso, quasi sempre, non viene consegnato”. Ma gestito: “Grazie ad un mio compaesano, che sapeva fare la voce più grossa di altri, ho avuto al terzo giorno questo sacco, ma tutto era ovviamente fuori misura”. È previsto un servizio di lavanderia, ma con tempistiche vaghe e “i vestiti te li ridanno ancora bagnati”.
E così passano i giorni, tre più uno per P.C., ma settimane e mesi per altri: e nelle stanze e nei corridoio sono in molti a tentare la via del ricovero per uscire da lì. Numerose le risse e le violenze tra “ospiti”: “Nessuno interviene, se non quando tutto è finito, per raccogliere i feriti, ma solo se succede nei cortili esterni e nei corridoi, nelle stanze non entra nessuno”. Solo la pietà di chi è altrettanto ospite spesso salva uomini moribondi. Talvolta.
Ma i momenti più difficili sono quando arriva il giorno del rimpatrio: “Quando arriva il turno, e arriva senza preavviso, entrano i poliziotti, accompagnati dal personale delle cooperativa che gestisce il centro”. Viene chiamato il nome; sono quelli gli attimi più drammatici: “le persone impazziscono e iniziano a tagliarsi, ferirsi per non essere presi, o per sperare in un ricovero”. E le scene a cui assiste P.C. sono indelebili: “Un ragazzo, avrà avuto vent’anni, aveva un pezzo di vetro, e davanti ai poliziotti si è tagliato la gola, da solo”. Sangue misto a terrore. “Non l’ho più visto”.
Poi per Povero Cristo, arriva un colloquio con un giudice di pace, i documenti che attestano il ricorso sono saltati fuori, può uscire. Per cui le porte del Cpr si riaprono, questa volta nel senso giusto. “Avevo ancora un po’ di soldi con me, e sono riuscito a prendere un treno e a tornare a casa”. A casa, la sua Genova, che gli ha saputo dare una possibilità, doppia, per tirar su una vita difficile ma dignitosa. “Il carcere in confronto a quello che ho visto è un albergo, non potrò mai dimenticare, quei giorni per me sono un incubo, tutti dovrebbero sapere e vedere cosa succede, cambierebbero molte cose“. Forse.
“Spesso si sente dire che i lager in Libia non dovrebbero esistere, si parla di porti e soccorsi – riflette P.C. prima di congedarsi – ma forse gli italiani dovrebbero anche preoccuparsi di quello che succede in Italia”. Perché l’inferno è anche sulla terraferma, a pochi metri dalle nostre case, fuori dai titoli di giornale e dalle tendenze dei social. E ne siamo responsabili.
Nicola Giordanella
Illustrazioni di Emanuele Giacopetti