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Tra gli artisti esposti a Montmartre c'è Melina Riccio, l'artista di strada la cui firma, a Genova, compare su tutti i muri della città
Su quella collina (butte), che già in epoca gallica era consacrata a luogo di culto, si estende il quartiere di Montmartre che ospita la vita frivola di Parigi, una vera altura di 104 m sul livello della Senna, le cui vie più note, rue Fontaine, Banche, Pigalle, sono fiancheggiate da caffè, ritrovi, teatri , cinematografi, sale da ballo, sonnolenti locali che, al calar della sera, si animano di brillanti insegne luminose fino all’arrivo dell’alba. Sulla sommità, dietro l’imponente chiesa del Sacrè-Coeur, dove la rue Norvins incrocia Rue des Saules, si apre quello che, per antonomasia, è la culla della vita bohemiène di Parigi, Place du Tertre, punto pittoresco di ritrovo per poeti, mimi, ambulanti, pittori e per gli immancabili ritrattisti che, in pochi minuti, immortalano sulla tela i volti multietnici dei turisti: è il mondo dell’arte e della poesia. Per capire l’atmosfera che si respira basta ricordare che in questo universo fuori dalle regole e dal tempo, in questo cosmo di sogni e sentimenti dove l’unica norma ammessa è la libertà di espressione, sono transitati artisti impareggiabili come Degas, Cézanne, Van Gogh, Renoir. Quale cornice migliore, dunque, per ospitare opere di autori “eccentrici” che cercano nell’improbabile un modo per evadere dall’emarginazione e dal disagio sociale in cui la sorte li ha relegati?
“Banditi dell’Arte”, nome della mostra presente nelle sale della Halle Saint Pierre (fino al 6 gennaio 2013), è un omaggio agli artisti italiani rimasti ai “margini” del sistema della cultura ufficiale. Viene definita “Art Brut”, opere realizzate fuori dai canoni stilistici di altisonanti accademie e che fioriscono nelle strade, nei manicomi, nei ricoveri per indigenti o anziani, sulle panchine dei senzatetto, cioè tra coloro considerati “rifiuti” della società, estromessi dal mondo benpensante per quel “mal di vivere” montaliano che pervade la loro anima. Martine Lusardy e Gustavo Giacosa, (un italo-argentino che vive a Genova, in via Prè e lavora nella compagnia teatrale di Pippo Del Bono), hanno deciso di dare una chance di visibilità a tanti artisti italiani “hors normes” (fuori della norma), di ieri e di oggi, a partire da quello considerato il perno della mostra, Francesco Torris.
Costui, nel 1890, apprende dalla sua compagna di essere in attesa di un figlio, notizia sconvolgente per un carabiniere (vigevano norme restrittive severissime in proposito) che lo porterà tra le mura dell’Ospedale psichiatrico di Collegno, dove inizierà quel genere di scultura che chiamerà “Nuovo mondo”, fatta di allucinanti costruzioni realizzate con ossa di animali, recuperate dalla cucina della casa di cura. Non meno curiose appaiono le confezioni di chiffon di Giacomo Versino (altro ospite del Collegno) che ricordano i mantelli degli sciamani, o le opere cosmologiche, cariche di misticismo, di Mario Bertola, le architetture favoleggianti di Giuseppe Righi, le iconografie religiose, ricche di toni policromi, di Giovanni Battista Podestà, i peluche e le bambole imbrigliate in cavi elettrici o in tubi di plastica di Franco Bellucci, gli idoli smisurati, dal sapore felliniano, di Pietro Ghizzardi o di Giovanni Galli e i disegni ostentatamente lascivi di Francesco Borello. In questo cammino tormentato della spirito c’è anche un angolo della nostra città che appare come un’oasi di pace: sono i graffiti variopinti di Melina Riccio.
Un nome che si apre con un cuore ricavato dall’iniziale “M” e si conclude con una stella: questa è la firma di un’artista di strada contemporanea, genovese di adozione, che, quando parla, si esprime in rima e che qualcuno ha definito “una donna di fede che sogna di riempire il mondo di poesia” . Si potrebbe etichettarla superficialmente una ”disadattata” che vagabonda per le vie della città, “decorandola” di messaggi di pace e di collage inneggianti un amore cosmico per la salvezza della natura ma, se si si ha occasione di incontrarla, insieme ad un dono che sempre offre sia esso un fiore, un cuore di stagnola o un ritaglio di stoffa, regala un momento unico di comunicazione. Questa dolce signora di mezz’età, giocando col diminutivo del suo nome (Melina da Carmelina), si descrive come un piccolo pomo “mezzo marcio” e mezzo buono”, scartato dalla società in seguito ad un esaurimento nervoso, proprio come un frutto avariato. Ha, infatti, conosciuto la realtà del ricovero psichiatrico, in cui ha maturato un rigetto verso un mondo che, schiavo del denaro, non sa apprezzare le bellezze della vita e il lavoro delle persone. Lasciata la famiglia per inseguire quella che per lei è diventata una missione, proteggere la natura, si è dedicata alla sua particolare arte che estrinseca attraverso collage traboccanti di cuori, scritti murari, ritmiche strofe e, come già detto, modesti piccoli omaggi che elargisce, con un sorriso, in segno di fortuna e di pace.
Una mostra particolare, come si può ben evincere, che trasuda disagio, che scende nei meandri più inconsueti della mente, che coinvolge per la sua profonda umanità, una mostra che si sposterà a Bruxelles per poi approdare ad altri lidi, ancora da identificare, tra i quali, Giacosa, spera esservi anche Genova, città in cui, come ci insegna la storia, i sogni di “libertà” sono un bene da difendere ad ogni costo.
Adriana Morando