A causa della scarsa conoscenza sono pochissimi i medici italiani che la prescrivono. Inoltre bisogna combattere contro gli interessi economici delle multinazionali farmaceutiche interessate a commercializzare i derivati sintetici
Informazione, formazione, condivisione sono i tre elementi cruciali con cui provare a scardinare il muro di ignoranza che si trovano di fronte i pazienti che intendono curarsi con la cannabis terapeutica.
Un’opportunità consentita dalla Legge italiana a partire dal 2007, quando il principio attivo (THC) della cannabis è stato inserito nella tabella II B, l’elenco delle sostanze stupefacenti e psicotrope di riconosciuto valore terapeutico, ovvero farmaci prescrivibili con semplice ricetta bianca non ripetibile. Con il decreto ministeriale del 18 aprile 2007 i cannabinoidi delta-9-tetraidrocannabinolo (THC) e trans-delta-9-tetraidrocannabinolo (Dronabinol) entrano nella tabella II B «Considerato che costituiscono principi attivi di medicinali utilizzati come adiuvanti nella terapia del dolore anche al fine di contenere i dosaggi dei farmaci oppiacei ed inoltre si sono rivelati efficaci nel trattamento di patologie neurodegenerative quali la sclerosi multipla». Il Ministero della salute, a partire da quella data, rende possibile utilizzarli nella terapia farmacologica.
Peccato però che questa norma non sia mai stata pubblicizzata adeguatamente e chi voglia accedere a questa modalità di cura deve combattere contro mille ostacoli burocratici, resistenze da parte di medici ed Asl, risposte diverse a seconda della regione di residenza (tutta la trafila a cui sono sottoposti i pazienti è dettagliatamente descritta nella precedente inchiesta di Era Superba).
Ieri, al centro sociale Terra di Nessuno del Lagaccio, si è svolto un incontro informativo alla presenza di realtà antagoniste provenienti da Torino (csoa Gabrio), Pisa (Osservatorio AntiPro), Bologna (Laboratorio AntiPro del Livello 57), Milano, Roma e Genova (associazione Pazienti Impazienti Cannabis). L’obiettivo è parlarne, far circolare l’informazione, mettere il sistema davanti all’evidenza del paradosso italiano – una cura consentita dalla legge ma praticamente inaccessibile alla maggior parte dei malati – per provare ad aprire uno spiraglio nell’opinione pubblica.
Innanzitutto è stata sottolineata la differenza tra i farmaci derivanti dai cannabinoidi sintetici (in particolare il Nabilone), prodotti dall’industria farmaceutica, rispetto alle cosiddette infiorescenze femminili di cannabis, fiori coltivati in laboratorio, sterilizzati e sottoposti ad un minuzioso controllo per quanto riguarda qualità e sicurezza, realizzati appositamente per il Ministero della salute olandese. Entrambe le tipologie sono importabili grazie al Decreto Ministeriale dell’11 febbraio 1997, relativo all’importazione di farmaci esteri direttamente dal produttore da parte delle Farmacie del servizio sanitario pubblico.
I derivati sintetici sembrano mostrare minore efficacia e maggiore incidenza di effetti collaterali rispetto ai derivati naturali, oggi preferiti da molti pazienti. Nonostante ciò finora in Italia la maggioranza delle importazioni ha riguardato soprattutto un principio attivo sintetico, il Nabilone, in pratica thc puro ed il Sativex, uno spray sublinguale a base alcolica, prodotto dalla Bayern che negli ultimi tempi è stato approvato in molti paesi europei.
La pianta di cannabis contiene al suo interno una settantina di principi attivi, l’unico stupefacente è il THC. Le ricerche portate avanti in questi anni hanno consentito di comprendere che l’azione degli altri cannabinoidi modulano l’effetto del THC e riducono gli effetti collaterali. Inoltre anche altri principi attivi, ad esempio il CDB, hanno interessanti proprietà terapeutiche. In paesi più tolleranti come l’Olanda, oggi si ragiona in direzione di una specializzazione delle coltivazioni dedicate all’uso medico: esistono, infatti, semi di canapa che garantiscono determinate percentuali di alcuni principi attivi che possono risultare utili per differenti patologie.
Ma qual è l’ostacolo principale in Italia?
Il problema è trovare medici disponibili a prescrivere la cannabis terapeutica. In tutta Italia sono solo poche decine i professionisti che decidono di farlo. Uno dei motivi per cui non prescrivono i derivati naturali è perché nel momento in cui un medico prescrive una cura simile, di conseguenza svaluta la sperimentazione sui farmaci cannabinoidi sintetici sviluppata anche dai ricercatori italiani. Oltre ad una motivazione strettamente legata a notevoli interessi economici, ne troviamo un’altra, probabilmente più grave, perché riguarda la carenza di informazione in merito alle infiorescenze femminili di cannabis. Purtroppo in Italia la formazione rivolta ai medici è appannaggio esclusivamente delle case farmaceutiche e di enti autorizzati che non hanno alcun interesse nel veicolare le conoscenze sui prodotti naturali. Dall’altro lato non va dimenticato che spesso a livello regionale, i medici delle singole aziende sanitarie locali, non informati adeguatamente dai direttori sanitari, ignorano questa opportunità di cura.
Le associazioni che si battono per il libero accesso alla cannabis terapeutica – in prima fila Pazienti Impazienti Cannabis – hanno contattato medici e ricercatori olandesi per chiedere supporto, trovando subito disponibilità. Le ipotesi allo studio sono sostanzialmente due: stampare in lingua italiana il materiale informativo sui derivati naturali; promuovere seminari in Italia, alla presenza di esperti olandesi, affinché anche nel nostro Paese si possa parlare consapevolmente di cannabis terapeutica. L’obiettivo è quello di creare un nucleo di medici disponibili a condividere le informazioni con altri colleghi, in maniera tale da stimolare un circolo virtuoso puntando ad allargare progressivamente il numero dei professionisti coinvolti.
I pazienti intendono rivendicare il fondamentale legame tra la pianta e la cura, al contrario delle case farmaceutiche che mirano ad isolare il principio attivo per produrre farmaci sintetici.
Nelle varie proposte di legge regionali presentate in Italia, uno dei punti principali è proprio la richiesta di avviare una produzione italiana di cannabis a fini medici, sul modello olandese. Oggi è già tutto pronto perché nel nostro Paese esiste una coltivazione autorizzata, con alta concentrazione di THC, ai fini della ricerca. Sarebbe sufficiente individuare un laboratorio farmaceutico centrale, ad esempio lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze, che grazie alle sue competenze potrebbe occuparsi della sterilizzazione e del controllo qualitativo del prodotto destinato alla fornitura per il Servizio Sanitario pubblico. Il percorso però deve essere necessariamente avviato da una regione che richieda un ordinativo di principio attivo per le esigenze dei suoi pazienti.
E qui arriviamo ad un altro snodo centrale, ovvero l’attuale situazione delle leggi regionali. Oggi in due regioni, Puglia e Marche, una delibera sul tema cannabis terapeutica è già stata approvata ma anche qui si dovrà passare da una legge regionale. Purtroppo però, secondo Pazienti Impazienti Cannabis, le nuove norme invece di favorire, limitano l’accesso alla cura: la lista delle patologie interessate è assai scarna e comprende solo la sclerosi multipla e la terapia del dolore in ambito oncologico.
Ma finalmente, pochi giorni fa, in Toscana, prima regione italiana, è stata approvata una vera e propria legge in merito. La legge regionale toscana è limitata – sottolinea Pazienti Impazienti Cannabis – ma comunque accettabile. Questo grazie all’intervento dell’associazione che ha convinto i consiglieri toscani a modificarne l’impostazione, precedentemente incentrata esclusivamente sulla terapia dolore. Il 2 Maggio è stata approvata però affinché non rimanga una legge vuota, puramente di indirizzo, sono previste delle delibere attuative. La Giunta ha garantito di impegnarsi con delibere che vadano in un senso di maggiore apertura, ma staremo a vedere quale sarà il risultato finale.
In Liguria, dopo oltre un anno in naftalina, la proposta di legge regionale “Modalità di erogazione dei farmaci e delle preparazioni galeniche a base di cannabinoidi per finalità terapeutiche” – presentata per la prima volta il 7 marzo 2011 da Federazione della sinistra e Sinistra ecologia e libertà – in questi giorni è stata nuovamente illustrata ed ora è pronta ad approdare in commissione sanità. Un passaggio fondamentale perché se davvero si riuscirà a trovare una formula ideale, questa legge potrebbe diventare il modello di riferimento per le altre regioni italiane.
Quali sono le prospettive future ed i metodi di lotta possibili?
In alcuni paesi europei (in particolare Spagna e Belgio) in questi ultimi anni, nonostante non siano mancate denunce ed arresti, è stato avviato il progetto dei Cannabis Social Club. Un modello che ha lo scopo di evitare che i consumatori di cannabis siano coinvolti in attività illegali e assicura che siano soddisfatti certi requisiti riguardanti la sicurezza e la salute pubblica. I Cannabis Social Club (CSC) sono delle associazioni registrate e senza fini di lucro, formate da persone adulte che consumano cannabis. I club possono essere istituiti legalmente in tutti i paesi dove la coltivazione per uso personale di quantitativi di cannabis è stata decriminalizzata. I Cannabis Social Club organizzano la coltivazione collettiva di un quantitativo di cannabis che è esclusivamente inteso per il consumo privato dei propri membri. I CSC si pongono un obiettivo politico, ovvero il cambiamento delle politiche sulle droghe, proponendo un alternativa al mercato nero. Ma non solo l’obiettivo è anche ragionare sul consumo consapevole e sull’abuso. Alla ricerca non di una liberalizzazione, bensì di una regolamentazione che consenta ai consumatori di usare la cannabis consapevolmente.
In Italia, dal punto di vista legislativo, non esistono spiragli per avviare esperienze del genere. E però la presenza di numerosi pazienti che intendono curarsi con la cannabis – e già in passato lo hanno fatto assumendosi il rischio di auto prodursi la pianta medica – apre nuovi possibili scenari. Quindi nel nostro paese si profila la possibilità della nascita di associazioni simili rivolte però esclusivamente al livello medico. E la giurisprudenza potrebbe dare una mano, considerato che alcuni procedimenti giudiziari a carico di malati accusati di coltivazione illegale di cannabis, sono stati archiviati quando, prima del processo, sono riusciti a presentare le adeguate documentazioni mediche a sostegno dell’utilizzo terapeutico della pianta.
La strada giudiziaria dunque appare una scorciatoia da percorrere per il riconoscimento dei propri diritti. E partendo da qui si potrà provare ad esercitare la necessaria pressione sulla politica affinché anche il Parlamento si occupi della questione. In Italia i pazienti sono gli unici pronti a rischiare. A seguire una linea di disobbedienza civile ove vi sia un principio certo: la coltivazione personale di un malato non è perseguibile dalla legge.
Matteo Quadrone