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Quello che sentiamo per un'opera d'arte non è un
Si è aperto a Palazzo Ducale un ciclo di incontri tra “L’uomo e il suo cervello” il primo del quale è stato dedicato al “Cervello artistico”, in cui il relatore, Antonio Gallese, neuroscienziato, professore ordinario di fisiologia al Dipartimento di neuroscienze dell’Università di Parma, ha spiegato le relazioni che intercorrono tra l’opera d’arte, la percezione di un osservatore e i nostri neuroni.
L’empatia, che è un processo che ci permette di “intuire” le emotività dello stato d’animo altrui e, in particolare, l’empatia estetica nasce come costrutto teorico fra Ottocento e Novecento e si pone un amletico interrogativo: la comprensione dell’arte è diretta o mediata? A questo, pare, aver risposto il team del Prof. Giacomo Rizzolatti, di cui il Prof. Gallese fa parte, con l’individuazione dei “neuroni a specchio”, un particolare tipo di cellule nervose presente nella regione parieto-premotoria del cervello, scoperte, per la prima volta negli anni ’90.
Esperimenti condotti su macachi hanno evidenziato, infatti, che alcune aeree motorie del cervello si attivano non solo quando compiamo un’azione ma anche quando la vediamo compiere da altri. Lo stesso vale per l’uomo: questi neuroni sarebbero i responsabili fisiologici, della nostra capacita di relazione con gli altri (intersoggettività), evocando “ricordi” di analoghi comportamenti o sensazioni già sperimentati da noi stessi.
L’individuo avrebbe, cioè, una capacità innata di internalizzare il comportamento di un’altra persona o di una sua emozione, la cosiddetta “simulazione incarnata” ed imitarne il moto (solo come attivazione di potenziali a livello cerebrale non reale spostamento) o le sensazioni. Se quello che vediamo, infatti, ci è sconosciuto, quest’area motoria rimane silente.
Sulla base di queste evidenze scientifiche le opere d’arte, come altre forme di “comunicazione” che vanno dal linguaggio alle impressioni sensoriali e che fruiscono dello stesso sistema dei neuroni a specchio, non sarebbero percepite ma empatizzate. Un oggetto, preso come simbolo di un mondo materiale, viene trasfigurato dall’artista per cogliere la sua “emotività più invisibile” che ci viene trasferita grazie ad un “rapporto particolare tra chi crea l’oggetto e chi lo contempla”.
Davanti ad un’opera d’arte, dunque, attraverso le aree deputate alla vista, si attivano canali “multimediali” che fanno da “cassa di risonanza” per altre attività cerebrali che “mimano” gli stessi intenti del creatore. L’enorme rilievo di questa conclusione, che sembrerebbe più una disertazione filosofica che una ricerca scientifica, sta nella ricaduta che nuove conoscenze, di questo tipo, potrebbero avere nell’interpretazione dei meccanismi legati alle patologie dei disturbi mentali. Nella Sindrome di Ausperger, ad esempio, si sarebbe accertato una notevole riduzione nel funzionamento dei neuroni a specchio con conseguente mancanza di quei rapporti di intersoggettivita tipica dei bambini autistici. Questo nuovo approccio sui percorsi della “mente”, toglie il nostro cervello dall’angusto mondo della mera anatomia, per catapultarlo in quel mondo delle neuroscienze che, indagando a 360 gradi, ci stupiscono ogni giorno svelandone le incredibili potenzialità.
Adriana Morando