«Raccolgo frammenti, fotografie, oggetti, qualsiasi cosa attiri la mia attenzione, in qualsiasi momento». L'artista genovese e la sua mostra all'Unimediamodern Gallery. Classe 84, Giulia studia, indaga e rappresenta "il tempo che scorre"
Fino al 30 aprile è possibile visitare l’esposizione di Giulia Vasta, classe ’84, diplomata in Pittura all’Accademia Ligustica. La mostra si intitola “Le forme dell’assenza” ed è ospitata dalla Unimediamodern Gallery.
Frammenti di vita di altri, colti per caso su una spiaggia dopo una mareggiata, luoghi abbandonati, scanditi da vecchie finestre rotte da cui filtra una luce opaca, vecchie porte di legno tarlato e consumato dal tempo, tenute chiuse da un fil di ferro arrugginito… Questi sono solo alcuni dei soggetti immortalati da Giulia durante la sua ricerca, utilizzando media diversi.
Osservando le foto esposte, si finisce col cercare di immaginarsi la storia del vecchio stivale che giace sulla sabbia, o di come sia arrivato fin lì il piccolo rosario dai grani sbiaditi che pende da un vecchio tronco bianco lavato dall’acqua salata: «Il mio modo di lavorare – spiega Giulia – nasce e si sviluppa a seguito dell’accumulo di materiale. Provo un grande fascino per tutto ciò che è trascurato, tralasciato, abbandonato. Raccolgo frammenti, fotografie, oggetti, qualsiasi cosa attiri la mia attenzione, in qualsiasi momento. Mettendo insieme le cose, in qualche modo il lavoro nasce. Tutto trova la giusta combinazione».
È così che accanto alle immagini di questi oggetti prendono posto radici vere e proprie, prelevate e portate fino alla piccola sala dove sono adesso esposte insieme alle fotografie. Radici fotografate e radici fisicamente presenti: «Le radici e le ramaglie sia esposte che fotografate sono le stesse che hanno attraversato il corso del fiume e che ho raccolto, in questo caso sulla spiaggia dopo la mareggiata. Il loro significato risiede nella loro essenza, nel loro percorso, nel loro viaggio, nel loro passato e in tutto ciò che le ha portate fino a lì».
Vicino, un video manda l’immagine di un tratto del Bisagno, l’acqua che scorre rapida lambendo i grossi piloni di cemento grigio: al tema del ricordo, rappresentato dagli oggetti e dai luoghi, si unisce il tema del flusso: «La mia ricerca si muove nell’ambito dell’esistenza e la ricerca del “senso”. In particolare questa mostra nasce da un’immagine: rami piegati, accumulati e incastrati nei piloni dei ponti dei fiumi. Questa immagine mi ha dato un senso profondo di resistenza, qualcosa che, nonostante tutto, non si lascia trascinare dalla corrente. Ricordi, tracce, tutto ciò che resta. E poi il fiume, con la sua forza irrefrenabile, il suo continuo movimento, il suo perenne passare. Per “immortalare” questa immagine ho deciso di utilizzare una vecchia telecamera e fare diverse riprese, inquadrature dell’acqua che scorre sotto il ponte. Da questo video ho scelto alcuni fotogrammi: dal flusso, quindi, ho estrapolato alcune immagini».
Su una delle pareti, il concetto di flusso è ribadito chiaramente da lunghe sequenze di frame da video digitali: acqua che scivola via dalle mani a coppa, una costruzione di sabbia che si consuma sotto l’onda, una saponetta che si scioglie tra le mani. Panta rei: il tempo ci scorre tra le dita prima ancora che ce ne accorgiamo, gli istanti non tornano più: «Esattamente, è lo scorrere inesorabile del tempo e le tracce lasciate dal suo passare.“…Non ti bagnerai mai due volte nella stessa acqua di un fiume, perché tutto cambia continuamente, vi è una sola cosa che non cambia, il cambiamento (Eraclito)».
Diversi mezzi artistici, diverse opportunità per trovare la via più adatta a ciascuna creazione: «La pittura per me è un modo di guardare il mondo. In accademia ho studiato pittura, e tra le altre, fotografia, arti performative e video. Dopo il primo approccio accademico alla pittura ho iniziato a sperimentare. Sono partita dall’informale e ho iniziato ad utilizzare diversi materiali per poi concentrarmi su quelli edili: stucco, cemento, gesso e da lì sono nati i miei “muri”. Le crepe, le sbeccature hanno dato inizio alla mia riflessione sul tempo. Il tempo è diventato il tema fondamentale del mio lavoro e ho iniziato ad esprimere questo concetto attraverso diversi linguaggi. Credo che l’importante sia sapere cosa si vuol dire e cercare il modo (mezzo) migliore per esprimerlo».
Il video del Bisagno è girato in 4/3, con una vecchia telecamera analogica appunto, con cui l’artista ha potuto dare sfogo al suo amore per la tecnologia passata: «Ho una grande passione per la fotografia soprattutto analogica, ho anche una bella collezione di macchine fotografiche tra le quali una Rolleicord degli anni cinquanta. Le foto in mostra però sono digitali. La fotografia digitale, grazie alla sua immediatezza, è di grande aiuto nel mio lavoro perché mi permette di accumulare un gran numero di immagini, anche se cerco sempre di non “sprecarle”. Uso la fotografia non come fotografia fine a se stessa ma come raccolta di immagini».
Il lavoro analogico però mette in contatto con ciò che si sta creando in maniera infinitamente più viscerale rispetto alle tecniche digitali: «Sono d’accordo con te, stampare in camera oscura è un’esperienza incredibile dove il tempo diventa rivelatore di immagini. Anche questa esperienza è stata fondamentale nel mio lavoro (Giulia ha seguito il corso di camera oscura di Alberto Terrile, ndr). Tuttavia la praticità della fotografia digitale è di grande aiuto per il mio lavoro di “accumulatrice”».
Se è vero che il lavoro dell’artista nasce da una pulsione personale alla creazione, è vero anche che il suo approdo finale è davanti al pubblico: una congerie di sguardi, nell’insieme tutti indistinti eppure così diversi l’uno dall’altro. L’idea è quella di riuscire a comunicare qualcosa a tutti loro: «Spero che chi guarda il mio lavoro sia stimolato dal punto di vista emotivo. Spero che le persone si mettano in relazione con il lavoro che stanno osservando, spero che arrivi la sensazione di “ricordo”, “vissuto”, qualcosa che appartiene a tutti, qualcosa di condiviso e difficilmente comunicabile».
Claudia Baghino