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Capire la crisi dell’Euro: la teoria delle aree valutarie ottimali

La logica avrebbe suggerito di completare prima tutti i passi descritti nella teoria delle aree valutarie ottimali e poi introdurre la moneta unica. Le cose, però, non sono andate così...


25 Gennaio 2013Penna sagace Banny

Finanza, Economia e BancheCome salvare l’Euro da questa crisi? Unione politica? Unione bancaria? Stati Uniti d’Europa? Non ho mai avuto un’idea molto chiara di come queste proposte permettano di salvare la moneta unica e, soprattutto, di quale sia esattamente il nesso tra la l’unione monetaria e una più stretta integrazione dei paesi dell’eurozona. I mezzi di informazione, come al solito, non permettono di formarsi un’opinione anche grazie ai nostri politici che, invece di spiegare chiaramente le ragioni del progetto europeo, si riferiscono agli Stati Uniti d’Europa come a un sogno da lasciare ai propri figli. Ho potuto finalmente fugare i miei dubbi quando un giorno, girovagando per la rete, mi sono imbattuto in diversi articoli che parlavano della teoria delle aree valutarie ottimali. Questa teoria, nata nel 1961 dagli studi dell’economista canadese Robert Mundell, elenca le condizioni necessarie affinché due o più paesi possano scegliere di adottare con successo la stessa moneta. Prima di addentrarci in questa teoria vediamo però cosa succede quando due paesi non hanno la stessa moneta.

ESEMPIO 1: PAESE A e PAESE B HANNO MONETA DIVERSA

Immaginiamo un mondo dove ci siano solamente due paesi: il paese A e il paese B. Questi due paesi hanno le loro rispettive monete che utilizzano per avere degli scambi commerciali. Immaginiamo ora che il paese A esporti al paese B più merci di quanto importi e che, di conseguenza, il paese B importi più di quanto esporti trovandosi quindi ad avere un deficit nella bilancia commerciale. Per pagare le merci prodotte in A, gli abitanti di B devono cambiare i propri soldi vendendo moneta B per comprare moneta A. Questo causa un aumento della domanda per la moneta A e di conseguenza, secondo la legge della domanda e dell’offerta, una rivalutazione della moneta A e una svalutazione della moneta B. Questo rende le merci del paese B più convenienti e gli abitanti del paese A cominceranno a comprarle riequilibrando rapidamente la bilancia dei pagamenti dei due paesi. Questo meccanismo automatico di riequilibrio è il cosiddetto sistema dei “cambi flessibili” ed è in vigore dal 1971 anno in cui sono stati abbandonati gli accordi di Bretton Woods.

ESEMPIO 2: PAESE A e PAESE B HANNO LA STESSA MONETA

Immaginiamo ora che il paese A e il paese B vogliano adottare la stessa moneta. Perché dovrebbero volerlo? La ragione principale è che avere la stessa moneta azzera il rischio di cambio. Con monete diverse se una banca del paese A prestasse dei soldi a un’impresa del paese B rischierebbe di essere ripagata con una moneta che nel frattempo si potrebbe essere svalutata. Se invece si utilizza la stessa moneta questo non può accadere e ciò incoraggia gli scambi commerciali tra i paesi.

Ma allora quando è possibile avere un’unione monetaria? Secondo la teoria delle aree valutarie ottimali si devono verificare alcune condizioni:

  • Flessibilità dei prezzi e dei salari: i salari e i prezzi devono poter variare per riequilibrare eventuali squilibri. Se un paese è in deficit nella bilancia commerciale i salari devono poter essere abbassati per ritrovare velocemente competitività e, specularmente, devono alzarsi in condizione di surplus.
  • Mobilità dei fattori di produzione: i lavoratori dei paesi in deficit devono poter emigrare nei paesi in surplus per trovare un’occupazione.
  • Apertura al commercio estero: tanto più un paese è aperto agli scambi con gli altri paesi tanto meno è soggetto alle variazioni del tasso di cambio nei confronti di quei paesi. Se un paese è dipendente da prodotti provenienti dall’estero, in caso di svalutazione della propria moneta i benefici sarebbero limitati dall’aumento dei prezzi delle merci importate.
  • Diversificazione produttiva: la crisi di un settore industriale può essere compensata da altri settori in espansione.
  • Integrazione fiscale: dovrebbero essere previsti dei trasferimenti dalle zone in espansione a quelle in recessione, così come avviene, ad esempio, tra le regioni italiane.
  • Convergenza dei tassi di inflazione: se il tasso di inflazione di un paese fosse minore di quello degli altri, le merci di quel paese sarebbero sempre più convenienti creando un surplus strutturale nella bilancia commerciale a discapito degli altri paesi.

A questo punto alcuni di voi diranno: “Ma a me non sembra che all’interno dell’Unione Europea sussistano queste condizioni!”. Purtroppo avete ragione. A conferma di questo vi riporto l’analisi condotta dall’economista Alberto Bagnai che, nel suo libro “Il tramonto dell’Euro”, effettua un confronto tra l’area valutaria ottimale, così come descritta nella teoria economica, e l’Unione Europea, concludendo che nessuna delle condizioni necessarie per avere un’unione monetaria sono soddisfatte:

  • I salari, come abbiamo visto la scorsa settimana, tendono  a essere flessibili, ma solo verso il basso. La Germania, pur essendo in surplus commerciale, ha moderato i salari creando un enorme squilibrio nell’Eurozona.
  • Le barriere linguistiche, culturali e burocratiche tra i vari paesi dell’Unione sono ancora troppo grandi. Siamo lontani da quanto avviene, ad esempio, negli Stati Uniti dove si parla la stessa lingua ed è facile trasferirsi da uno stato all’alto per cercare lavoro.
  • Paesi aperti al commercio, come l’Italia, non potendo ricorrere all’aggiustamento del cambio, hanno sofferto la crisi più di altri.
  • Per i paesi più piccoli è difficile attuare una diversificazione produttiva. Esempio ne è la Grecia che, fortemente in deficit nella bilancia commerciale, in caso di uscita dall’Euro si troverebbe a dover importare praticamente tutto con una moneta svalutata.
  • Non sono a oggi previsti trasferimenti dai paesi in surplus (Germania) a quelli in deficit (PIIGS).
  • L’inflazione dei paesi dei PIIGS, fin dall’introduzione dell’Euro, è sempre stata più alta di quella dei paesi della Germania a causa anche della moderazione salariale attuata dal governo tedesco.

La logica avrebbe suggerito di completare prima tutti i passi descritti nella teoria delle aree valutarie ottimali e poi introdurre la moneta unica. Si è fatto esattamente il contrario perché si pensava, forse con troppo ottimismo, che sarebbe stata l’introduzione stessa dell’Euro a creare le condizioni affinché essa fosse sostenibile: gli inevitabili momenti di crisi come questo sarebbero serviti per convincere popoli così diversi a cedere parte della propria sovranità in nome del progetto europeo. Ad oggi sembra che questo non stia avvenendo e, anzi, il risentimento verso l’Unione Europea è sempre più forte, soprattutto nei paesi vittime delle politiche di austerità. È dunque compito dei paesi più forti, Germania in primis, ridare slancio al processo di unificazione europea, ma è proprio questa volontà politica a mancare. Di questo passo la prima grande crisi dell’Euro, più che rappresentare un’opportunità di integrazione, rischia di tramutarsi nella pietra tombale del progetto di Europa unita.

 

Giorgio Avanzino


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