Non voglio bandire la tecnologia, penso solo che un altro modo di produrre sia possibile. Oggi i prodotti sono progettati per durare un tempo molto limitato, ma non sarebbe lo stesso se il produttore pagasse in prima persona per smaltirli
Molti di voi probabilmente sanno già che la maggior parte dei gadget elettronici che usiamo tutti i giorni sono prodotti in condizioni tutt’altro che rispettose dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. Forse però molti di voi non sanno cosa succede al vostro smartphone una volta che, diventato obsoleto, entra a far parte del ciclo dei rifiuti.
Gli smartphone, così come i tablet e tutti gli altri gadget di cui ormai nessuno di noi può più fare a meno, sono rifiuti particolari perché, oltre a non essere biodegradabili, contengono molte sostanze considerate tossiche per l’ambiente. È per questo motivo che è assolutamente necessario non buttare apparecchi elettronici insieme agli altri rifiuti, ma depositarli all’isola ecologica. In seguito questi rifiuti devono essere trattati per recuperare alcuni dei materiali di cui sono composti: rame, ferro, acciaio, alluminio, vetro, argento, oro, piombo, mercurio che possono essere così riutilizzati per produrre nuovi apparecchi invece di dover estrarre nuove materie prime. Fin qui sembrerebbe che tutto funzioni e che, in fin dei conti, si possa inseguire l’ultimo gadget tecnologico senza doversi sentire troppo in colpa per gli eventuali danni arrecati all’ambiente.
Purtroppo non è così: il trattamento dei rifiuti elettronici (RAEE – rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche), se eseguito nel rispetto delle regole, è molto costoso e pertanto questi vengono spesso spediti dove il processo di recupero è più conveniente, cioè nei paesi in via di sviluppo come India, Cina e alcuni paesi africani. La maggiore convenienza deriva dal fatto che il processo di recupero dei materiali avviene disapplicando tutte le norme di tutela dell’ambiente e della salute dei lavoratori: migliaia di persone senza alcuna protezione bruciano a cielo aperto, per meno di un dollaro al giorno, tonnellate di rifiuti elettronici per scioglierne il rivestimento di plastica e recuperare il rame in esso contenuti.
Le conseguenze sono purtroppo drammatiche: contaminazione delle acque, inquinamento atmosferico e ovviamente altissima incidenza di cancro nelle popolazioni locali. Tutto questo avviene nonostante le normative internazionali non consentano ai paesi sviluppati di sbarazzarsi dei loro rifiuti semplicemente spedendoli altrove. Queste norme vengono tuttavia aggirate facendo figurare i rifiuti elettronici come materiale di seconda mano ancora funzionante vendibile sui mercati emergenti.
In questo modo i paesi sviluppati esternalizzano i costi per lo smaltimento dei rifiuti e sono i paesi in via di sviluppo a pagarli sotto forma di devastazione ambientale e umana. Attraverso un inasprimento dei controlli si potrebbe certamente cercare di contrastare questo fenomeno, ma forse una soluzione più efficace potrebbe essere un’altra: ridurre a monte la quantità di rifiuti elettronici prodotti.
Non voglio certo proporre di bandire la tecnologia dalla nostra vita, penso solo che un altro modo di produrre sia possibile. Oggigiorno tutti i prodotti che compriamo sono progettati per durare un tempo molto limitato secondo una strategia che viene chiamata “obsolescenza programmata”. È per questo motivo che gli apparecchi elettronici sono difficili da aggiornare, facilmente danneggiabili e difficili da riparare. Quante volte vi è capitato di trovarvi nella situazione in cui è più economico comprare un nuovo lettore DVD o una stampante piuttosto che farli riparare?
Ma cosa succederebbe se fossero proprio i produttori di apparecchi elettronici a dover provvedere al loro smaltimento? Pensate davvero che le cose si romperebbero lo stesso così frequentemente? In questo modo i produttori sarebbero incentivati a progettare oggetti modulari di cui si potrebbe sostituire solo la parte danneggiata e non l’oggetto intero. Si passerebbe in questo modo dal “progettare per la discarica” al “progettare per durare”.
Lo scorso 24 Luglio è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale Europea la nuova direttiva sui RAEE che tende a responsabilizzare maggiormente i produttori di apparecchiature elettroniche riguardo allo smaltimento dei rifiuti. Come si legge, questa direttiva intende “contribuire alla produzione e al consumo sostenibili tramite, in via prioritaria, la prevenzione della produzione di RAEE e, inoltre, attraverso il loro riutilizzo, riciclaggio e altre forme di recupero, in modo da ridurre il volume dei rifiuti da smaltire e contribuire all’uso efficiente delle risorse e al recupero di materie prime secondarie di valore”. Viene inoltre affermato che la politica ambientale dell’Unione europea “è basata sul principio di precauzione, […] «chi inquina paga»”.
La novità più rilevante introdotto da questa direttiva è il ritiro “uno contro zero”: i grandi esercizi commerciali avranno l’obbligo di ritirare gratuitamente i piccoli elettrodomestici anche senza l’acquisto di un prodotto nuovo equivalente. Ciò rappresenta un’evoluzione rispetto al ritiro “uno contro uno” attualmente in vigore secondo cui i commercianti sono obbligati a ritirare gratuitamente un dispositivo elettronico per ogni acquisto effettuato dal cliente.
Tuttavia nessuna direttiva, per quanto possa andare nella giusta direzione, potrà risolvere da sola il problema dei rifiuti elettronici. È nostro dovere di cittadini avere comportamenti più consapevoli e orientare i nostri acquisti tenendo in considerazione altri criteri oltre a quanto un prodotto è “cool”, limitando l’acquisto di prodotti elettronici e, quando proprio necessario, scegliendo quelli più “eco-friendly”. Sicuramente non è facile, tutti noi subiamo il fascino della tecnologia, ma forse pensare che ogni volta che compriamo un nuovo gadget quello vecchio potrebbe finire in un rogo e diventare una nuvola tossica magari potrebbe aiutare…
Giorgio Avanzino
[foto di Daniele Orlandi]