Ai tempi della Superba esisteva già una moschea, si trovava alla Darsena, nel cuore del Porto di Genova
La moschea si farà, dove non si sa. Stante la bocciatura, raccolta in Comune, sull’ubicazione al Lagaccio, siamo costretti ad assistere ad una nuova noiosissima ondata di discorsi e polemiche, si torna a parlare di Coronata dove, immediatamente, sono comparse, nella notte, scritte minacciose che promettono di impedire ad ogni costo la costruzione del luogo di culto islamico.
La storia della moschea genovese parte da molto lontano: sono circa 20 anni, infatti, che la comunità mussulmana chiede uno spazio unico dove poter praticare la propria fede. Attualmente gli “spazi preghiera” sono ubicati in diverse zone della città, scantinati o saloni in affitto, dove da anni, lontani dai bollori dello sterile dibattito cittadino, i mussulmani genovesi regolarmente si riuniscono a pregare.
L’iter burocratico di questo progetto, le posizioni dei vari partiti, le motivazioni contrarie sollevate dai quartieri interessati, che vanno dalla precaria viabilità alla disagevole ubicazione, sono arcinote e reperibili facilmente in rete, quindi, non resta che analizzare l’annosa questione facendo un salto indietro nel tempo.
Quando Genova era la “Superba”, diciamo intorno al XVI secolo, tempi in cui la convivenza tra mussulmani e cristiani, se non proprio pacifica, era mediata dagli scambi economici, nessuno si era stupito per il sorgere di una moschea in Darsena (sembra fossero in realtà due), ubicata sul lato esterno, quello verso il mare, proprio vicino al cuore del porto. La stessa etimologia “Darsena”, che deriva dall’arabo dâr-as-sinâ’ah, traducibile in “casa del lavoro”, ci dice che la locazione era stata â scelta perché il porto era il centro economico della città, luogo di affari ma, anche, alla necessità, incontro di spiritualità. Così nessuno aveva trovato da ridire se, accanto al suono delle campane, echeggiava il richiamo del muezzin dal balcone del minareto, la cui guglia svettava verso l’alto, circondato dalle torri campanarie di antiche chiese. Di questo antico edificio non rimane traccia se non in una colonna conservata presso la cosiddetta “Sala Moschea” della Facoltà di Economia, ma la cui presenza certa è documentata da atti, conservati nell’Archivio di Stato, datati 1762, riguardanti un nuovo progetto che prevedeva l’ ampliamento del luogo di culto.
Da più antichi certificati, del 1717, si può evincere, inoltre, come la comunità araba fosse ben radicata nel territorio tanto da ottenere un terreno posizionato vicino “alla spiaggia della Foce sotto le mura di Carignano”, per avere un proprio cimitero.
Dell’altra moschea si hanno scarne notizie ma sembra fosse più grande e costruita per sollecitazione del “papasso” termine con cui veniva, in quei tempi, indicato l’Imam. La convivenza tra le due popolazioni è, anche, testimoniata dalle tante parole, che sono entrate a far parte del dialetto genovese, di chiara derivazione araba, come camalli (hamal), nababbo (naib), gabibbo (habib) o sapori della nostra cucina come lo zimino (samin), il musciamme (mušamma) e lo scapeccio (sikbag). Da tutto ciò se ne trae la conclusione che, forse, il problema andrebbe affrontato attraverso il dialogo e la conoscenza, non senza una ferma condanna ad ogni forma di violenza: un confronto sereno tramite una delle facoltà più mirabili di cui ci ha dotato la natura, la parola, potrebbe là dove tanti incartamenti hanno fallito e la nuova moschea potrebbe trovare un posto sotto l’azzurro cielo della nostra città, corredata da quella pace sociale che è un attributo fondamentale per ogni edificio dedito alla spiritualità.
Adriana Morando