Il fallimento del quartiere ha radici molto profonde nella storia di Genova. E oggi, i fantasmi di ieri, vivono ancora tra i resti di una città devastata dall'urbanistica folle, "in guerra" contro gli spazi del popolo
di Leonardo Lippolis
Le recenti chiusure de “la Rinascente” di via XII Ottobre, dopo 58 anni di attività, e successivamente di alcuni bar e locali, ha sollevato un dibattito cittadino sulla scarsa vitalità dell’area di Piccapietra, divenuta l’emblema di una Genova in crisi, vecchia ed immobile. Pare strano, ad amministratori e commentatori, che una zona così centrale e moderna non attragga investimenti e non sia il cuore dinamico della città, sul modello delle grandi metropoli occidentali.
Oggi Piccapietra, concepita all’epoca dai progettisti per diventare il centro direzionale finanziario di una metropoli che avrebbe dovuto superare i due milioni di abitanti, è vissuta come un’enclave, uno scheletro muto e freddo privo di forme di vita, da attraversare frettolosamente. Insomma, il prototipo di quelli che l’antropologo francese Marc Augè ha definito i non luoghi: spazi, tipici dell’urbanesimo contemporaneo, in cui le persone transitano ma nessuno vi abita, respingenti qualsiasi dimensione sociale, privi di identità e rapporto con la storia, talmente uguali gli uni agli altri da risultare interscambiabili. Se la nuova Piccapietra non è mai diventata la city finanziaria, e questo per la miopia di chi ha idealizzato un futuro rivelatosi impossibile per Genova, ha tuttavia vissuto un paio di decenni di relativa vitalità commerciale, a partire proprio dall’apertura della Rinascente nel 1960, come salotto della borghesia cittadina. Ora che le sue principali attrazioni commerciali hanno chiuso, ci si accorge di come essa stia diventando una zona morta e di come l’intero progetto della città moderna concepita in quegli anni stia mostrando una vecchiaia prematura.
Eppure questo fallimento ha delle radici lontane. Sebbene oggi la distruzione dell’antica Piccapietra venga unanimemente considerata come un errore, quello che si omette di dire è che essa fu una scelta voluta e pianificata per decenni, perfettamente inserita nello spirito dell’epoca e, come tale, rappresenta un paradigma ed un crocevia della storia urbana, sociale e politica del Novecento. A Piccapietra, sia simbolicamente che materialmente, “la città è nuda”.
Portoria era uno dei sei sestieri che formavano l’antica città medievale, periferico in senso geografico ma vitale nel suo tessuto sociale. La porta che sorgeva al suo margine faceva parte della cinta di mura del Barbarossa; per quanto meno monumentale di Porta Soprana e Porta dei Vacca, essa vantava due solide torri e, oltreché Aurea, era anche detta Porta D’Oria, perché sorgeva sui terreni della nobile famiglia, e la sua contrazione in “Port’Oria” portò alla sua denominazione. All’interno del sestiere, che si estese nel corso dei secoli fino a coprire una parte molto ampia del centro città, Piccapietra era una porzione di territorio che prendeva il nome dalla principale attività artigianale che vi si svolgeva, la lavorazione della pietra. A Piccapietra tenevano bottega infatti numerosi scalpellini, scultori e artigiani che lavoravano i marmi nonché l’ardesia che veniva cavata in Val Fontanabuona.
Nel nuovo contesto urbano la zona di Piccapietra venne a trovarsi incastrata come un residuo medievale circondato dai nuovi assi viari e, già nel 1885, l’ingegnere e architetto Cesare Gamba, il progettista di via XX Settembre, auspicò la necessità di uniformarla al tessuto circostante
La storia plurisecolare del sestiere subì il primo scossone con la rivoluzione urbanistica di fine Ottocento. Genova era all’epoca una delle città economicamente più importanti della nuova Italia unita e voleva rappresentarsi con un’immagine degna del suo crescente prestigio. Tra gli anni settanta e la fine del secolo nacque così il centro borghese e monumentale delle varie via XX Settembre, piazza De Ferrari e via Roma con allargamenti, sbancamenti, sfratti. Le celebrazioni colombiane del 1892 furono un ottimo pretesto ideologico e un’occasione economica per quest’opera di modernizzazione e l’inaugurazione, proprio nel 1900, di via XX Settembre, segnò simbolicamente il suo compimento. Nel nuovo contesto urbano la zona di Piccapietra venne a trovarsi incastrata come un residuo medievale circondato dai nuovi assi viari e, già nel 1885, l’ingegnere e architetto Cesare Gamba, il progettista di via XX Settembre, auspicò la necessità di uniformarla al tessuto circostante. Così il primo sbancamento di una parte della collina che costituiva la peculiarità fisica di Piccapietra venne realizzato tra il 1874 e il 1876 per realizzare Galleria Mazzini, andando a distruggere, tra altre strade, la famigerata Crosa del Diavolo, così chiamata in ricordo del “bosco del diavolo”, una zona di vegetazione intorno a Corvetto considerata per molto tempo pericolosa a causa di strani rumori e apparizioni, dovuti in realtà a stratagemmi che contrabbandieri e malfattori vari mettevano in atto per evitare di essere disturbati nei loro traffici, e per questo motivo fatta radere al suolo dal Senato genovese già nel Seicento.
Il dibattito ed i progetti di Gamba proseguirono per lunghi anni senza nessun riscontro pratico fino al Piano Regolatore del 1932, che organizzò una trasformazione razionalista del centro città culminata nella distruzione dell’antico quartiere di Ponticello e nella costruzione dell’attuale piazza Dante e del grattacielo di Piacentini. Dopo quest’ulteriore operazione, Piccapietra e la zona di via Madre di Dio rimanevano due resistenze medievali ancora più isolate e assediate dalla modernità e si posero quindi come urgenze da risolvere.
La questione venne finalmente affrontata nell’immediato secondo dopoguerra. Due furono i fattori decisivi che intervennero tra i progetti non realizzati dal Piano Regolatore del 1932 e l’effettiva distruzione di Piccapietra negli anni cinquanta. Innanzitutto gli ingenti danni provocati dalla seconda guerra mondiale, che colpì pesantemente il centro città, distruggendo numerosi palazzi e lasciando imponenti rovine. La necessità di ricostruire fu un ottimo pretesto per organizzare la resa dei conti con le vestigia della città vecchia. Ma soprattutto, a dare forma e contenuto al nuovo che avanzava, era sopraggiunta la redazione del manifesto dell’urbanistica moderna: la Carta d’Atene, scritta da Le Corbusier, a capo del pool di architetti internazionali del CIAM, nel 1933 e pubblicata nel 1938.
Le Corbusier si ispirava esplicitamente alla fabbrica di Henry Ford rivoluzionata dall’introduzione della catena di montaggio
La Carta d’Atene sosteneva che, nella nuova civiltà urbana, la vita dell’uomo moderno si riducesse a quattro bisogni fondamentali: abitare in alloggi salubri, lavorare, ricrearsi nel tempo libero e circolare rapidamente. La città doveva organizzarsi ex novo intorno alle necessità della produzione industriale e della circolazione delle merci e, non a caso, Le Corbusier si ispirava esplicitamente alla fabbrica di Henry Ford rivoluzionata dall’introduzione della catena di montaggio. In questo senso i suddetti quattro bisogni dell’uomo diventavano funzioni utilitaristiche dell’economia capitalistica. Il sistema concettuale di Le Corbusier era lineare e geometrico come i suoi progetti: il motore che muove tutto è la produzione industriale; la città, in quanto luogo privilegiato della sua organizzazione, va modernizzata come una macchina efficiente; le persone, inquadrate come una massa anonima, laboriosa e obbediente, devono essere integrate come ingranaggi di questa macchina.
Tradotto in pratica, questo modello di un formicaio umano automatizzato prevedeva innanzitutto lo sventramento dei centri storici, i quali dovevano divenire poli direzionali fatti di grattacieli, uffici e servizi. Il cuore pulsante della città pubblica doveva trasformarsi nel cervello organizzativo della città fabbrica. Soltanto alcuni monumenti di valore storico artistico dovevano essere salvati dalla distruzione, ma completamente isolati dal loro contesto urbano di origine. La popolazione sfollata dal centro andava redistribuita a corona in zone periferiche, organizzate in agglomerati di edifici di nuova concezione, le cosiddette Città radiose. Unità di abitazione concepite ognuna come una piccola città verticale, esse dovevano ospitare oltre 1500 persone l’una e tutti i servizi del vecchio quartiere (negozi, scuole, attività varie) compresi al proprio interno. Le Corbusier – teorizzando che la casa sarebbe una “macchina per abitare” – realizzò il prototipo della Città radiosa a Marsiglia tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta, prototipo che sarebbe stato clonato (quasi sempre privo dei servizi previsti al suo interno) nei decenni successivi nelle periferie di tutto il globo. Il resto della città doveva essere strutturato attraverso un reticolato perfettamente ortogonale di spazi verdi per rigenerare il corpo dalle fatiche del lavoro e grandi arterie di traffico che permettessero la circolazione veloce delle automobili. Sostanzialmente incurante delle specificità storiche, geografiche e climatiche, questa città geometrica di cemento, vetro e viali infiniti avrebbe dovuto essere riprodotta pressoché uguale a se stessa ovunque.
Alla base della teoria di Le Corbusier c’era sicuramente una visione prometeica della nuova civiltà delle macchine e dell’ “uomo nuovo”, condivisa con il resto della comunità architettonica e urbanistica dell’epoca. L’ideologia funzionalista era infatti prettamente funzionale ai bisogni della ristrutturazione capitalistica postbellica e la Carta d’Atene offriva ottimi principi per la modernizzazione delle città, tanto che venne accolta nelle sue concezioni di fondo. Ma, a differenza di altri urbanisti e architetti sinceramente progressisti, Le Corbusier aveva un più preciso progetto politico reazionario che è riuscito a far passare attraverso la sua retorica modernista.
Che Le Corbusier avesse simpatie per il fascismo e il nazismo non è ormai più un mistero; ben tre biografie uscite recentemente in Francia lo documentano. Pieno di entusiasmo e probabilmente speranzoso di rientrare in quel piano, egli scriveva in una lettera alla madre: «Hitler può coronare la sua vita con un’operazione grandiosa: la pianificazione dell’Europa». Ma già nel tumulto sociale degli anni venti Le Corbusier, dichiarando esplicitamente “architettura o rivoluzione, si può evitare la rivoluzione”, aveva fatto intendere che una certa pianificazione architettonica e urbanistica sarebbe stato un ottimo strumento per reprimere le lotte e gli slanci rivoluzionari dell’epoca. Così, trent’anni dopo, la sua Città radiosa permetteva finalmente di raggiungere il conseguente obiettivo urbanistico di quel programma politico: “sopprimere la strada”, considerata una vestigia di barbarie, un insopportabile anacronismo.
attraverso un’equazione urbanisticamente lombrosiana, il popolo che si annidava tra le sue pieghe non poteva che essere moralmente corrotto
La strada, da sempre scenografia della vita collettiva della città, sua anima sociale e politica, andava sostituita con il corridoio interno all’unità di abitazione, da usare per transitare da casa a scuola, dalla lavanderia al negozi. Nei suoi testi urbanistici, Le Corbusier associava esplicitamente l’insalubrità dei vecchi quartieri, principale pretesto per la loro demolizione, con un giudizio morale negativo sui suoi abitanti. Come i crocicchi di strade tortuose della città medievale erano brutti e malsani rispetto all’ordine perfetto della linea retta, così, attraverso un’equazione urbanisticamente lombrosiana, il popolo che si annidava tra le sue pieghe non poteva che essere moralmente corrotto.
La Carta d’Atene venne redatta al termine di una crociera-laboratorio compiuta dal pool di architetti del CIAM nell’estate del 1933 tra Marsiglia ad Atene, durante la quale vennero visitate e studiate una serie di città da cui trarre indicazioni per un’idea di rinnovamento urbanistico generale. Tra di esse vi fu Genova, di cui Le Corbusier discusse con i colleghi, ed è facile immaginare in quali termini progettuali. La Carta d’Atene divenne dunque il manifesto incontrastato dell’ideologia urbanistica del secondo dopoguerra ed alla sua stretta osservanza si attenne anche la Commissione Urbanistica incaricata dal Comune di Genova, alla fine del 1945, di studiare la redazione di un Piano di Ricostruzione delle zone bombardate, nonché quella delle linee guida di un nuovo Piano Regolatore Generale cittadino. Varie vicende portarono allo slittamento dell’approvazione e a varie modifiche del Piano Regolatore fino al 1959, ma l’urgenza spinse il Comune ad elaborare nel 1950 un Piano Particolareggiato di Esecuzione, reso operativo dal 1953, per la sola zona di Piccapietra.
Fedele interprete di Le Corbusier, Eugenio Fuselli, uno dei responsabili del piano, dopo averla già in un’altra occasione definita “inaccessibile e squallida”, affermava: “Piccapietra è porzione centralissima della città rimasta esclusa dalla vita moderna ed è un tipico esempio del “baracchismo” insediatosi nelle aree necrotiche centrali, residuate dai bombardamenti dove tipiche isole etniche di immigrati in breve tempo si ambientano e vengono raggiunti dai familiari” (E.Fuselli, La città e il piano, 1954).
“Va notato – si legge nella relazione del Piano Regolatore – che mediante la realizzazione di questi piani e di quello generale scompariranno completamente i seguenti vecchi quartieri: Piccapietra, San Vincenzo, Madre di Dio, San Donato, il Molo e Prè”
In tutti i testi degli architetti preposti allo studio della trasformazione di Genova la contrapposizione tra città “vecchia” e città “moderna” veniva esplicitamente usata nei termini di un giudizio inappellabile di condanna della prima ed esaltazione della seconda. Il progetto formulato dalla Commissione urbanistica prevedeva lo sventramento dell’intero centro storico: “Va notato – si legge nella relazione del Piano Regolatore – che mediante la realizzazione di questi piani e di quello generale scompariranno completamente i seguenti vecchi quartieri: Piccapietra, San Vincenzo, Madre di Dio, San Donato, il Molo e Prè” (B.Giontoni, L’urbanistica della ricostruzione. Genova dal dopoguerra agli anni Sessanta, Erga, 2017, p.183). Per capire la portata dell’intervento sul centro storico (comprese Piccapietra e Madre di Dio), si pensi che i tecnici avevano previsto la necessità di sloggiare e deportare complessivamente 68 mila genovesi (ivi, p.165). Mario Labò, infine, spiegava come la popolazione espulsa dal centro città dovesse essere ricollocata in “borghi satellite”, ovvero in zone periferiche lontane dal centro e che, a tal fine, fosse necessario “vincere la diffusa ostinazione ad abitare nel centro” (citato in M.Vergano, La costruzione della periferia. La città pubblica a Genova, 1950-1980, Gangemi, 2015, pp.41-42).
Tutto ciò si materializzò nell’espansione urbana collinare che caratterizzò Genova per i successivi vent’anni. Nuovi edifici e quartieri sorsero sulle alture di una città già satura di spazi, avviando quel meccanismo di speculazione edilizia diffusa e incontrollata, i cui risultati abbiamo ancora oggi sotto gli occhi. D’altronde, lo stesso Labò, mettendone in guardia dal “pervertimento”, affermava che la speculazione fosse la “leva dell’industria” da incoraggiare e finanziare, osservando cinicamente che l’espropriazione degli edifici della città vecchia, visti i loro modesti valori economici, sarebbe stata poco gravosa e che fosse quindi urgente “metterla a disposizione dei costruttori” (B.Giontoni, op.cit, p.96).
Anche l’ondata costruttiva seguita al dibattito teorico si ispirò al dettato corbusiano. Nello specifico, la prima area identificata per ricollocare gli sfollati del centro storico fu la collina circostante Mura degli Angeli. Il fotomontaggio del nuovo borgo satellite realizzato dai progettisti nel 1949 e pubblicata sulla rivista “Genova” rende l’idea: una quindicina di unità di abitazioni che avrebbero occupato tutto lo sviluppo verticale della collina. Di fatto ne venne materializzato soltanto un frammento, il complesso delle due “macchine per abitare” (quella orizzontale identica al prototipo di Marsiglia) realizzate da Carlo Daneri a Mura degli Angeli tra il 1954 e il 1956. Stesso destino ebbe il borgo satellite previsto a Quezzi. Anche in questo caso venne realizzato meno della metà del progetto originario; ispirati dal modello mai realizzato del Plan Obus, pensato da Le Corbusier per Algeri, Daneri e Fuselli idearono questa volta una città radiosa sinuosa che seguisse il profilo della collina di Forte Quezzi: il celebre Biscione, costruito tra il 1956 e il 1968. A questo proposito merita di essere ricordato un piano, concepito nel 1965 per il ponente genovese come revisione del Piano Regolatore del 1959, che testimonia in modo inequivocabile ed impressionante quale fosse l’utilizzo che si voleva fare di complessi simili e l’intero immaginario della città fabbrica dell’epoca. Il piano, elaborato dalla commissione Astengo (comprendente anche il già citato Fuselli) prevedeva che l’intera costa venisse occupata da un’area portuale ed affiancata da una ripida successione di costruzioni a intasare la collina che, in successione, comprendeva: la ferrovia, una linea di edifici di scalo al porto, una strada sopraelevata a scorrimento veloce, l’Aurelia, un centro direzionale di edifici destinati alla gestione dei traffici portuali, l’autostrada ed, infine, in cima alle alture, un’area residenziale costituita da una serie continua di supercondomini ispirati al Biscione.
Il Piano di Piccapietra, adottato dal Consiglio Comunale nel luglio del 1950 e regolamentato attuativamente nel 1953, prevedeva lo sbancamento totale dell’area per ottenere una superficie urbanistica di 63.700 mq e l’allontanamento e il ricollocamento delle 808 famiglie (circa 2200 persone) residenti negli edifici da demolire, 705 delle quali, appartenendo alla fascia dei meno abbienti, avrebbero dovuto accedere ad alloggi a canone sociale previsti dal piano nazionale Ina-Casa. I lavori cominciarono nel 1951 per realizzare via XII Ottobre, il collegamento tra piazza Corvetto e via XX Settembre previsto già dalla fine dell’Ottocento. La distruzione proseguì per tutti gli anni cinquanta. Insieme alla Porta Aurea e agli ospedali degli Incurabili e del Pammatone (di quest’ultimo, seriamente danneggiato dai bombardamenti della guerra, venne conservato solo il colonnato di base, inglobato nella struttura moderna del nuovo Tribunale), scomparve l’intero reticolato di vicoli compresi tra via Cebà, salita di Piccapietra e piano di Piccapietra, vico Pelle, vico Tintori, scalinata Casacce, vico delle Fucine, vico dei Santi, vico Pellissoni, vico Agogliotti, vico Zuccarello, via Balilla, vico Pevere, via Bartolomeo Bosco, salita Cannoni, via di Portoria, e con esso il fitto e vivo tessuto popolare di attività artigianali e di una comunità plurisecolare. Nel 1957 i lavori erano già così avanzati che Ottavio De Santis e Gino Pesce potevano comporre la struggente Piccon dagghe cianin, canzone immediatamente entrata nel repertorio tradizionale genovese. A partire dal palazzo de “la Rinascente”, inaugurata nel 1960, la ricostruzione proseguì per tutto il decennio, coinvolgendo numerosi ed affermati architetti.
E’ facile immaginare cosa sarebbe oggi Genova e quale sarebbe stata la responsabilità politica dei progettisti dell’epoca se il loro piano fosse stato realizzato integralmente: l’intero centro storico raso al suolo e sostituito da un’enorme colata di cemento
E’ facile immaginare cosa sarebbe oggi Genova e quale sarebbe stata la responsabilità politica dei progettisti dell’epoca se il loro piano fosse stato realizzato integralmente: l’intero centro storico raso al suolo e sostituito da un’enorme colata di cemento, fatta di non luoghi anonimi, grattacieli, qualche palazzo storico isolato in mezzo al nulla e larghe strade di attraversamento per collegare il levante al ponente (necessità quest’ultima a cui avrebbe sopperito la Sopraelevata, cominciata nel 1961). Le paludi della politica e gli eccessivi investimenti economici richiesti impedirono la concretizzazione di questo scempio. Vanno ricordati, a tal proposito, i nobili interventi di personaggi come Caterina Marcenaro e Ludovico Quaroni che, chiamati a dare una consulenza sul tema specifico del centro storico, ne difesero l’integrità, rivendicando “il senso poetico della vita” come un valore sociale e ricordando che “la città è come l’uomo. Non può vivere senza memorie” (citato in B.Giontoni, op.cit, p.182).
Ma torniamo a Le Corbusier, per approfondire le appena accennate implicazioni politiche della sua progettazione urbanistica. Egli affermava di ispirarsi al “genio” del barone Haussmann, il prefetto della Senna che, nella Francia di Napoleone III, tra il 1853 e il 1870, aveva disegnato il volto moderno di Parigi radendo al suolo i suoi quartieri medievali per costruire la città monumentale con i suoi grandi viali, meglio noti come boulevards.
Anche le motivazioni ufficiali della ristrutturazione voluta da Haussmann erano stati la modernità, l’igiene, il decoro, la grandeur. Ma un’altra ragione fondamentale del suo piano fu esplicitamente il disperdere quel popolo che, negli ultimi decenni della storia della città, era insorto troppe volte. In una arringa del 1864 contro la “feccia” dei quartieri poveri, Haussmann aveva fatto intendere come la nuova organizzazione urbana dovesse materialmente togliere il terreno da sotto i piedi ai rivoltosi. Costruendo viali enormi, come ci ricorda Walter Benjamin, “egli voleva rendere impossibile per sempre l’erezione di barricate a Parigi” (W.Benjamin, Angel novus, 2014, p.158). Purtuttavia il progetto di Haussmann non ottenne subito i risultati previsti; costretto a dimettersi nel 1870, egli fu costretto l’anno dopo ad assistere alla più clamorosa e radicale insurrezione proletaria del XIX secolo, la Comune. «Secondo Haussmann i parigini non esistevano, e la città era soltanto un immenso albergo di ricchi e di lavoratori […]. L’assedio ha dato ad Haussmann la risposta che meritava. Stranieri, notabili, burocrati, gente a caccia di piaceri, nomadi, tutti sono fuggiti. I veri abitanti di Parigi sono rimasti soli. Erano stati isolati, separati, cacciati di quartiere in quartiere e privati di ogni diritto per vent’anni. Ma la vita municipale non era finita, e alla prova del fuoco è tornata a fluire come il vino dal torchio». Così commentò a caldo il politico e pubblicista Augustin Cochin, riportato dallo storico Louis Chevalier in un capolavoro della storia sociale ottocentesca, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, scritto nel 1958. In questo saggio Chevalier analizzava la nascita, sull’onda della grande industrializzazione, della Parigi moderna come luogo affollato di masse sradicate dal mondo contadino e ancora prive di un’identità operaia; masse che il capitalismo voleva per l’appunto laboriose ma che invece ondeggiavano ancora pericolosamente sui margini di una minaccia incontrollabile all’ordine costituito. Questa divisione, tra classi pericolose e laboriose, si era riproposta, aggiornata ai tempi, al centro della riflessione di Le Corbusier; il suo “architettura o rivoluzione” degli anni venti del Novecento si muoveva esattamente nel senso della necessità di dare l’accelerata definitiva al processo di disciplinamento delle masse e, mutatis mutandis, echeggiava ancora nella lotta tra la città “vecchia” e quella “moderna” delineata dagli architetti e urbanisti alle prese con la trasformazione di Genova nell’immediato secondo dopoguerra.
Se il celebre Plan Voisin, progettato e mai realizzato da Le Corbusier nel 1925, era stato esplicitamente concepito “per distruggere i quartieri più malfamati” di Parigi (Le Corbusier, Urbanistica, Garzanti, Milano, 1974, p.234), il piano di ricostruzione della Genova postbellica si muoveva di fatto sulla stessa direttrice. Negli ambienti ravvicinati della città vecchia, come Le Corbusier ben sapeva, il popolo viveva a stretto contatto, maturando forme di vita proprie, legami di solidarietà e mutuo appoggio, ovvero una propria esperienza sociale autonoma, spesso in conflitto con la disciplina richiesta dalla ristrutturazione capitalista. In una città concepita come una fabbrica, l’elemento comunitario diveniva un intralcio, un ostacolo da rimuovere, e l’urbanistica e la zonizzazione funzionaliste intervennero in questo senso. Disintegrando comunità, invadendo le strade con le automobili, isolando e separando le persone, segregando la socialità negli spazi chiusi dell’edilizia residenziale, esse riuscirono nell’intento di uccidere quello che Vasco Pratolini chiamava “il sentimento di quartiere, e quel sapersi inventare la vita nella misura dei nostri corpi, vicini e solidali” (Pratolini, Il quartiere, 1945).
Una suggestiva sintesi della collisione tra questi due mondi è ben rappresentata in Mon Oncle, un film di Jacques Tati del 1956 che descriveva ironicamente la caotica, disordinata ed allegra vita di un quartiere popolare della vecchia Parigi, minacciata dall’avanzare dell’alienante e asettica modernizzazione razionalista. La comodità offerta dal frigorifero, dalla lavatrice, dalla televisione e dall’automobile – che proprio in quegli anni si imponevano come beni del consumo di massa – veniva pagata ad un caro prezzo, quello che, negli stessi anni, i situazionisti riassumevano nel baratto tra “la garanzia di non morire più di fame con la certezza di crepare di noia”. Proprio le trasformazioni urbanistiche pensate da Le Corbusier erano, secondo i situazionisti, strumenti fondamentali per imporre questa “idea borghese di felicità”. Nella prospettiva innovativa della “critica della vita quotidiana”, essi identificavano infatti nell’alienazione dello stile di vita organizzato dalla modernizzazione delle città – che i sociologi francesi avevano ribattezzato metrò-boulot-dodo (metrò-lavoro-nanna) – un’arma formidabile con cui il capitalismo, insieme al suo corollario consumistico, si stava trasformando in un sistema di mercificazione totalitaria (“la “società dello spettacolo”) della vita individuale e sociale, colonizzandone ogni momento dello spazio-tempo e l’immaginario, e rendendo di fatto impossibile sperimentare un altro modo di vivere che non fosse il solo funzionamento produttivistico della mega macchina.
In questo senso la storia di Genova assomiglia a quella delle altri grandi città europee. Nel 1977 in Francia usciva un altro libro di Louis Chevalier, intitolato L’Assassinat di Paris, che denunciava gli esiti catastrofici della politica urbanistica che, sulle orme di Haussmann e Le Corbusier, aveva completamente sventrato la Parigi storica e popolare. Chevalier faceva nomi e cognomi della speculazione, citava atti ufficiali di quel delitto urbanistico. Un libro sull’assassinio di Genova avrebbe sicuramente un ampio capitolo da dedicare a Piccapietra.
Sebbene nelle intenzioni del progetto elaborato in quegli anni di demolizione dell’intero centro storico non ci fosse sicuramente più un’urgenza “poliziesca” di controllo e sradicamento delle “classi pericolose”, il caso volle che anche la distruzione di Piccapietra anticipò di poco l’ultima insurrezione del popolo genovese. Nella gara tra gli speculatori che nel 1950 Mario Labò incoraggiava a mettere le mani sulla ricostruzione di Piccapietra, tra i vincitori ci fu Fausto Gadolla, un self made man arricchitosi nel campo delle costruzioni già dalla fine degli anni venti e che, nel periodo postbellico, seppe sfruttare l’onda favorevole della ricostruzione. Con la complicità di alcune connivenze politiche, fece circolare la voce che il Comune volesse espropriare la zona e convinse i proprietari a vendere per cifre modestissime, arrivando a impossessarsi di buona parte dell’area da ricostruire (Cfr. P.Zerbini, Dalle sabbie del Bisagno ai grattacieli di Piccapietra, “Il Lavoro nuovo”, 7 ottobre 1970). Gadolla, in particolare, fece erigere la Torre San Camillo, in onore dell’attigua chiesa dedicata al santo, unica architettura superstite della vecchia Piccapietra. Iniziato nel 1960 e terminato nel 1966, questo banale grattacielo completava, fisicamente e simbolicamente, la ricostruzione della nuova Piccapietra.
Fausto Gadolla era anche di dichiarata fede fascista e nel 1960, proprio mentre apriva i battenti la Rinascente di via XII Ottobre, decise di concedere il Teatro Margherita, di sua proprietà e sito in via XX Settembre a pochi metri dai cantieri della demolizione, come sede del congresso del MSI che avrebbe dovuto tenersi il 2 luglio. Com’è noto, questo fatto venne considerato come una provocazione intollerabile da una città che, appena quindici anni prima, tramite l’azione militare dei partigiani e la complicità dell’intera popolazione, si era liberata da sola dei nazisti, senza dover attendere l’aiuto degli Alleati. Il 30 giugno 1960 scesero in piazza decine di migliaia di genovesi e la rivolta che ne seguì travalicò pure il tentativo da parte del PCI e dei sindacati di contenerne la rabbia. Le cronache di quel giorno insistono molto sulla protezione che i vicoli a ridosso da De Ferrari diedero ai rivoltosi nell’alternarsi delle cariche e dei caroselli dei blindati; su come il popolo del centro storico partecipò attivamente agli scontri e come, dalle sue finestre, volassero vasi sulle teste dei poliziotti. Risulta facile immaginare che la composizione proletaria di Piccapietra, se non fosse stata appena sloggiata, avrebbe probabilmente partecipato alla sommossa, offrendole una porzione di territorio amico in più.
Va anche detto che il 30 giugno 1960 non può essere spiegato soltanto con l’orgoglio antifascista della città. I famosi giovani con le magliette a strisce – che affiancarono numerosi gli ex partigiani, i camalli e gli operai – erano troppo giovani per aver partecipato alla Resistenza ed esprimevano una nuova componente sociale. C’era in ballo qualcosa in più, un disagio che cominciava a manifestarsi nei confronti del benessere consumistico che, se da un lato innalzava innegabilmente il livello materiale della vita delle persone, dall’altro lato spingeva sensibilità acute come quella di Luciano Bianciardi a parlare di nuove “vite agre”. Non a caso Danilo Montaldi, acuto osservatore della nuova urbanizzazione di quegli anni (si veda il suo Milano Corea del 1960), scrisse, a nome del gruppo militante antistalinista di Unità proletaria di cui faceva parte e con cui partecipò agli scontri, che quella rivolta dimostrava che “quando cessa la fame e la miseria non cessano i motivi per mettersi contro l’attuale società, le classi che la governano, e la polizia che la difende” (Il significato dei fatti di luglio, “Quaderni di Unità proletaria”, luglio 1960).
Questo intreccio tra storia della forma urbana e storia politica di Genova, generatasi intorno ai protagonisti della distruzione di Piccapietra, avrebbe riservato altre suggestioni interessanti.
Il 5 ottobre 1970 Sergio Gadolla, il figlio secondogenito di Fausto, venne rapito attraverso un’azione clamorosa e inedita, e rilasciato soltanto dopo quasi tre mesi di prigionia dietro il pagamento di un riscatto di 200 milioni di lire. Il rapimento era opera della banda 22 ottobre, il primo gruppo di lotta armata d’Italia, apparso sulla scena genovese nel 1969. I membri della 22 ottobre erano proletari della Val Bisagno che si ispiravano alla teoria della Resistenza “tradita”, avevano partecipato alla rivolta del 30 giugno ed erano decisi a combattere, in una prospettiva neoresistenziale, contro un capitalismo in cui percepivano che il fascismo fosse sopravvissuto e si stesse riciclando. Essi scelsero Sergio Gadolla proprio per la responsabilità politica del padre nell’aver concesso il Teatro Margherita per il convegno del MSI, ma anche per una certa coscienza del significato politico dei luoghi urbani, dal momento che provenivano tutti dalle case popolari di piazzale Adriatico, un quartiere che si era appena sviluppato proprio a partire dalla ricollocazione e deportazione di una parte consistente degli sfollati di via Madre di Dio, il cui sventramento aveva seguito di pochi anni quello di Piccapietra. Non fu dunque un caso che la 22 ottobre, l’anno dopo il rapimento Gadolla, scelse l’Istituto Autonomo Case Popolari per una rapina di autofinanziamento. Lo IACP fu individuato infatti come responsabile delle politiche di speculazione edilizia che erano state all’origine della recente strage di via Digione, quando il 21 marzo 1968 una delle palazzine costruite sulle alture della collina degli Angeli crollò seppellendo sotto le macerie 19 persone. La rapina andò male; il fattorino Floris provò a resistere all’esproprio e rimase ferito a morte da un colpo di pistola sparato da Mario Rossi. I membri della banda vennero arrestati e la sua storia finì lì, mentre la speculazione edilizia continuò a colonizzare le alture genovesi per anni (basti pensare a Begato, alle lavatrici di Prà, al CEP di Voltri o all’insediamento di Quarto alta), rispondendo non più ad un’espansione della città che si era fermata ma allo sfollamento di altri abitanti del centro città che invece proseguì a lungo.
Portman dichiarò all’epoca che a Genova non ci fosse nulla che restasse impresso nella mente di chi la visitava e che il suo grattacielo avrebbe fatto la fortuna della città
Se di Sergio Gadolla si ricorda solo questo episodio legato alla cronaca, il primo rapimento politico d’Italia, l’altro figlio Gianfranco ha proseguito la strada del padre e ha tentato un colpo di mano speculativo che, se si fosse realizzato, avrebbe segnato ancor di più la storia recente della città. In vista dell’ondata di soldi in arrivo su Genova per i Mondiali di calcio del 1990 e le Colombiane del 1992, a Genova si scatenò una nuova ondata speculativa da parte dei palazzinari che portò, tra l’altro, al disegno della zona di San Benigno con il nuovo centro direzionale (WTC e il Matitone) e alla discutibile realizzazione di Corte Lambruschini, uno storico caseggiato a corte con annesso mercato dei fiori rimpiazzato dal solito complesso di grattacieli di cemento e vetro. Gianfranco Gadolla, per l’occasione, si fece sponsor e promotore, nel 1988, di un impressionante progetto di cementificazione dell’intero Porto Antico, il Cono Portman, dal nome dell’architetto americano John Portman. Esso prevedeva la distruzione di tutta l’area compresa tra la Stazione marittima e il Molo vecchio, mediante la costruzione di un’isola di cemento alta sei piani e culminante in una torre alta 262 metri a forma per l’appunto di cono, che sarebbe stato il più alto grattacielo d’ Europa. L’isola avrebbe avuto forma di triangolo equilatero di trecento metri per lato, per una superficie corrispondente a otto campi di calcio, e avrebbe dovuto ospitare garage, negozi, uffici, spazi per attività commerciali, ristoranti tra colonnati, loggiati, giardini pensili. Il grattacielo avrebbe avuto trenta piani dedicati ad albergo e uffici e ristoranti, culminanti in una terrazza panoramica. Portman dichiarò all’epoca che a Genova non ci fosse nulla che restasse impresso nella mente di chi la visitava e che il suo grattacielo avrebbe fatto la fortuna della città, facendone un’attrazione turistica al pari di Roma, Firenze e Venezia. Il progetto venne preso decisamente sul serio, tanto da vedere schierarsi favorevolmente il sindaco e il presidente della Regione e divenire oggetto di un aspro dibattito cittadino che si protrasse per mesi, prima di essere soppiantato da quello poi realizzato da Renzo Piano. Gadolla, con un sinistro millenarismo hitleriano, affermava: “Noi abbiamo un progetto mentre Piano non l’ha: la sua è soltanto un’ idea. Oltretutto l’Expo ’92 è limitata nel tempo: la torre di Portman invece può durare cento, mille anni. Noi garantiamo 1600 posti macchina e 300 mila metri quadri di pedonalizzazione” (G.Pepe, La città dimentica l’acciaio e insegue il boom dell’edilizia, “Repubblica”, 28 ottobre 1988).
Ma la storia di Piccapietra non può chiudersi senza un riferimento ad una delle pagine più celebri della storia cittadina. Portoria, come detto, era un cuore pulsante della vecchia Genova popolare, e da lì, non a caso, partì l’insurrezione del 1746, con la quale la città si sollevò contro l’esercito austriaco che la occupava. La scintilla che fece esplodere la rabbia di una popolazione esasperata dalle angherie delle truppe straniere avvenne il 5 dicembre, allorché, proprio nella zona di Piccapietra, un pesante cannone, trascinato da un drappello di soldati austriaci, sfondò il manto stradale rimanendo incastrato; i soldati intimarono ai passanti di fornire il proprio aiuto, e di fronte alla loro indifferenza, li aggredirono a colpi di bastone. La tradizione orale narra che fu l’undicenne Giovan Battista Perasso, il Balilla (ballin, balletta, in genovese per indicare un ragazzino), urlando «che l’inse?» (ossia: «la comincio?»), a scagliare la prima pietra contro gli austriaci, dando il là ad una rivolta che durò tre giorni e si concluse il 9 dicembre, quando gli austriaci furono costretti alla tregua e ad andarsene, mentre il popolo insorto si era già organizzato in un Quartier generale, una sorta di governo parallelo pronto a prendere decisioni militari e diplomatiche in modo indipendente dal governo ufficiale, rinchiusosi imbelle e timoroso a Palazzo Ducale.
Oggi, a memoria di questo episodio, rimane la statua bronzea del Balilla, opera realizzata nel 1863 dallo scultore Vincenzo Giani, allievo del più celebre Vincenzo Vela, dopo che una statua in gesso dello scultore genovese Cevasco era già stata collocata su un arco trionfale effimero eretto nel 1847 per il centenario della cacciata degli austriaci. Il Balilla del Giani, subito posizionato nel cuore di Piccapietra, fu uno dei primi monumenti pubblici della città, preceduto di un solo anno dal Cristoforo Colombo di Piazza Acquaverde, a testimoniare l’attaccamento dei genovesi a questa figura di eroe divenuto un’icona dell’orgoglio di un popolo refrattario all’oppressione. Il valore simbolico della statua era tale che essa non conobbe una vera e propria inaugurazione ufficiale, poiché le autorità cittadine temevano che l’evento sarebbe potuto servire da pretesto per manifestazioni anti piemontesi e venne rimandata addirittura al 1881, in occasione del presunto centenario della morte del Perasso. Con i lavori di demolizione e ricostruzione di Piccapietra la statua fu smontata, custodita e restaurata a Palazzo Tursi per tornare nella sua collocazione originaria, quella che si dice fosse il luogo in cui avvenne il fatto, soltanto nel 2001. Quel quartiere non esisteva più e la collocazione della statua oggi, nell’attuale contesto totalmente stravolto, la rende oggi una presenza dallo scarso impatto emotivo.
Tuttavia la lettura delle trasformazioni storiche della città affida alla sua ubicazione, e al momento del suo ritorno nella sede originaria, un valore contemporaneamente beffardo e simbolico. Intanto – il che, nella sua surrealtà, ci dice già molto di quanto il potere consideri innocui i messaggi di un’arte sempre meno pregna di significato comunicativo nel mondo odierno – il Balilla oggi punta il suo braccio teso con la pietra in mano contro il nuovo Tribunale, un edificio in cemento e vetro inaugurato nel 1974, mentre la statua era ancora in esilio a Palazzo Tursi. Il Palazzo di Giustizia inglobava i resti dell’ospedale del Pammatone, la cui funzione era già da tempo stata trasferita a San Martino dove, proprio in quegli stessi anni, Daneri e Fuselli, gli architetti del Biscione, costruirono il Monoblocco, facendoci ulteriormente riflettere sul fatto che le fattezze architettoniche di un reparto ospedaliero fossero concepite identiche a quelle delle abitazioni che venivano contemporaneamente costruite per ammassarvi migliaia di persone. Secondariamente, il ricollocamento della statua del Balilla avvenne pochi mesi prima dell’ultima grande sommossa che ha attraversato Genova, quella del G8 del luglio 2001.
Tra le molte analisi spese su quanto avvenne in giorni si è andata via via perdendo nel tempo una delle più interessanti e meno piegabili a interpretazioni sul suo dibattuto e complesso significato politico. La città venne allora letteralmente presa in ostaggio dall’organizzazione del summit. La creazione della enorme zona rossa, che per giorni vietò l’ingresso al centro storico a chi non vi fosse residente, fu diffusamente percepita come un palese sopruso da parte dei genovesi. Cancelli alti diversi metri, grate, checkpoint operanti ventiquattr’ore al giorno, costruirono un’enorme gabbia a protezione degli otto grandi e a sfacciato spregio degli abitanti della città, dando un paradigmatico esempio della creazione di uno stato d’eccezione, il vero stigma di cui ogni forma di governo, ancorché democratica, fa l’essenza del proprio potere nel momento del bisogno.
consapevoli che il labirinto medievale dei vicoli sarebbe stata un’utile alleata dei contestatori, non poterono far altro che renderlo inaccessibile
Quella zona rossa paradossalmente incarnò il sogno dei progettisti del secondo dopoguerra, svuotando la città vecchia della sua vita, ma con l’effetto decisamente più straniante che le sue architetture storiche erano ancora in piedi. Se, come ci ricorda Benjamin, Haussmann costruì i boulevards parigini anche per farci passare più comodamente i cannoni pronti a reprimere le insurrezioni del popolo, gli urbanisti del G8 di Genova chiusero i vicoli per renderli gestibili alle forze che dovevano garantire la serenità di chi doveva discutere del nuovo ordine mondiale nei saloni di Palazzo Ducale. Ancora una volta, nel luglio 2001, l’urbanistica si è dimostrata scienza di polizia. Poco importa che la rivolta, ignorando la fortezza inespugnabile, abbia scelto di disperdersi nel resto della città. Gli strateghi predisposti all’organizzazione del summit si confermarono degli attenti conoscitori di Haussmann; consapevoli che il labirinto medievale dei vicoli sarebbe stata un’utile alleata dei contestatori, non poterono far altro che renderlo inaccessibile.
Il fatto che Piccapietra rimase tagliata fuori, immediatamente a ridosso della zona rossa, è la conferma che essa non faceva più parte di quel tessuto urbano e che, nel suo freddo rigore di non luogo asettico, era considerata del tutto inoffensiva. Ciononostante, la suggestione della storia e dei suoi rimandi non può non far pensare al tempismo con cui quel Balilla di bronzo sia stato ricollocato nel suo luogo originario subito prima del vertice. Libero per pochi metri dalle grate della zona rossa, custode dello spirito ribelle della città, forse ci teneva ad essere lì in tempo, pronto a lanciare il suo “che l’inse?” e la sua prima pietra contro l’ennesimo sopruso di un potere invasore così sfacciato nei confronti della città. Eppure, a distanza di anni, l’ultima parola su quelle giornate del 2001 uscì dal Tribunale che si erge cupo ed opprimente a pochi metri davanti a lui. L’ironia della storia delle trasformazioni urbane fa sì che la lettura di una delle pagine più controverse della recente storia della città si possa intravedere nel confronto muto tra questo piccolo Davide, monumento eretto a memoria dell’orgoglio resistente di un passato remoto del popolo genovese, e un Golia postmoderno di cemento e vetro sorto durante la sua assenza, ultimo tassello del mosaico della nuova Piccapietra. Potere materiale e simbolico dei luoghi urbani, si potrebbe dire, oppure, forse più correttamente in questo caso, dei fantasmi che abitano certi non luoghi.