Dopo il fallimento del Comunismo e la caduta del Muro di Berlino ecco il fallimento del Capitalismo. Quello che resta all'Italia è un'ottima Costituzione e la ragione di ognuno di noi, scevra da ideologie e partiti
Qualcuno deve aver letto a Santoro il mio intervento di qualche settimana fa, perché giovedì la trasmissione “Servizio Pubblico” è andata decisamente incontro alle critiche che avevo sollevato sul programma. A parte la battuta, l’ultima puntata è stata decisamente più interessante delle precedenti. Il tema, le regole della finanza e il rapporto con la politica, è decisamente d’attualità; le analisi e gli approfondimenti, pur nei limiti del dibattito televisivo, non erano privi di una certa pregnanza; in studio erano presenti giornalisti prestigiosi, come Mentana e Mieli, l’ottimo Gianni Dragoni, il solito Travaglio e diversi invitati che, pur da prospettive talvolta opposte, non per questo hanno lesinato spunti interessanti, come il leader dei no global Luca Casarini o il giovane ricercatore di Oxford Emanuele Ferragina.
Era presente, a dire il vero, anche un politico. Eppure Giulio Tremonti, per il ruolo di governo che ha ricoperto fino a ieri e le particolari tesi espresse, è uno di quei politici il cui parere si ascolta sempre con un certo interesse. Intendiamoci: io non sono affatto un fan di Tremonti. Nonostante i giudizi positivi che riscuote un po’ in tutti gli schieramenti politici, da destra a sinistra, io sono del parere che questo tributarista di Sondrio come economista sia decisamente sopravvalutato: lo trovo fastidiosamente supponente, penso che sia direttamente responsabile di diversi obbrobri legislativi (vedi scudo fiscale) e, soprattutto, che si compiaccia di esprimersi attraverso metafore oracolari e profetiche, senza però che dietro a queste si nasconda una particolare profondità di analisi.
Detto questo, si tratta comunque di un personaggio che, inspiegabilmente, emana un discreto fascino intellettuale: sarà per la bellissima imitazione di Corrado Guzzanti; sarà per la folle ebrezza che ci pervade al pensiero che questo simpatico mitomane autoproclamatosi erede di Quintino Sella sia stato per tre diversi mandati l’autorità più alta per l’economia italiana; o forse sarà per lo sguardo inespressivo, gli occhiali anni ’70 e l’irresistibile erre moscia. Come che sia, l’altra sera molte persone, compreso il sottoscritto, sono rimasti ad ascoltarlo mentre ripercorreva cattedratico la storia del mondo dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale fino ai giorni nostri.
Secondo Tremonti nei primi anni ’90, con la fine del comunismo, la caduta dell’Unione Sovietica alla spalle e la nuova organizzazione del commercio mondiale (il WTO), il mondo è cambiato fino a produrre una globalizzazione che ha generato ricchezza da alcune parti, ma anche povertà in molte altre, mentre la finanza usciva fuori da ogni controllo. Il punto di svolta, secondo Tremonti, è la caduta del muro di Berlino. E non ci vuole un ministro dell’economia per dirlo: basta uno studente di liceo. Non c’è dubbio che si tratti dell’evento più importante per la storia contemporanea; il momento che costituisce, anche simbolicamente, lo spartiacque tra un dopoguerra dominato da due potenze e due ideologie e un “dopo”, in cui ci troviamo tuttora, che ancora non abbiamo capito bene cosa debba essere.
Tremonti rileva ciò che è ovvio, ma ha comunque ragione a incentrare l’attenzione sui cambiamenti avvenuti tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Certo è che il mondo prima del 1989 poteva ancora essere declinato secondo due schemi alternativi: da una parte il capitalismo statunitense e i paesi NATO, basati sulla libera iniziativa economica; dall’altra il comunismo russo e i paesi del patto di Varsavia, la cui economia era organizzata e pianificata direttamente dallo Stato, cioè dai funzionari del partito comunista al potere, con lo scopo (teorico) di livellare le ineguaglianze sociali. Il fatto che il comunismo così concepito sia fallito da un giorno all’altro, ha finito per ingenerare la convinzione che il capitalismo fosse la risposta.
Ad esempio, scrive Paul Krugmann (nobel per l’economia nel 2008) che dal 1989-91 in avanti: «il nocciolo del socialismo non rappresenta più un’opposizione al capitalismo. Per la prima volta dopo il 1917 viviamo dunque in un mondo in cui i diritti alla proprietà e al libero mercato sono considerati principi fondamentali, non più cinici espedienti» (Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008, Milano, Garzanti, 2009).
Ed in effetti in precedenza, persino nell’Italia alleata degli Stati Uniti, un minimo di richiamo al socialismo, o almeno a misure sociali, era d’obbligo, se non si voleva passare per egoisti che pensano solo all’arricchimento personale. Ma negli anni ’90 questi freni si sono definitivamente sciolti, e il modello dello yuppie anni ’80 dalla commedia di Jerry Calà e Christian De Sica è passato a paradigma della realtà. Ancora oggi è difficile riuscire a valutare l’impatto causato dalla fine del comunismo, cioè di un’opzione considerata seria e realistica per tutto il ‘900; ma è chiaro che il cambiamento, soprattutto da un punto di vista culturale e psicologico, è stato enorme.
E’ abbastanza evidente, ad esempio, che la vittoria del capitalismo è stata un’ubriacatura che ha fatto passare in secondo piano i suoi eccessi. Tant’è che oggi, con la crisi del capitalismo globale, tantissimi economisti – persino lo stesso Tremonti – riscoprono Marx. Eppure quello che la crisi avrebbe dovuto insegnarci non è tanto che il comunismo non aveva tutti i torti, quanto piuttosto che si fanno danni a voler operare nella realtà con il paraocchi di un’ideologia considerata vincente. In Italia, in particolar modo, siamo maestri nell’andare dove tira il vento: cosa che non facciamo per cinismo, ma per un naturale istinto di sopravvivenza, forgiato in secoli di dominazioni straniere, da cui discende che l’opzione più igienica è sempre quella di salire sul carro dei vincitori. Fascisti sotto il fascismo, partigiani nel dopoguerra, democristiani nel boom economico, “tangentari” sotto Tangentopoli, “anti-tangentari” e “berlusconiani” sotto Berlusconi, “tecnici” sotto Monti: gli Italiani fiutano l’aria che tira e cambiano in modo repentino, con una capacità di adattamento straordinaria.
Questa ricostruzione, a dire il vero, sarebbe ingenerosa, se non tenesse conto delle vaste minoranze che resistono nelle loro posizioni e non si piegano all’andazzo generale: ma è proprio il generale, la maggioranza, che conta. E negli ultimi vent’anni la maggioranza si è illusa che un capitalismo sfrenato con il minor controllo possibile da parte dello Stato sarebbe stata la soluzione. Solo oggi ci accorgiamo che, insieme al resto del mondo, vivevamo in un sogno e che abbiamo buttato via il bambino (il principio di superiorità dell’autorità politica e delle sue regole) con l’acqua sporca (il comunismo). Eppure non sarebbe stato difficile capirlo.
Dal passato avevamo il precedente di un’ottima costituzione scritta insieme da radicali, democristiani, socialisti e comunisti: funziona da 65 anni proprio perché non ha un’ideologia di riferimento, ma è il risultato sincretico di uno spirito comune (l’antifascismo) e della conseguente necessità di porre principi validi per sé e non dal punto di vista astratto di una utopia politica. Sapevamo benissimo, poi, per una lunga tradizione di pensiero, che l’autorità statale e le buone regole hanno un’utilità sociale preliminare rispetto alla scelte di politica economica. Sono tutte cose che abbiamo acquisito con fatica nel corso delle storia e che, tramite l’esperienza e il buon senso, avevamo imparato a riconoscere come valide. Ma le abbiamo trascurate perché la dottrina imperante, i facili guadagni e l’illusione di una crescita senza fine hanno reso comodo non considerarle. Per questo oggi saremmo più preparati ad affrontare le sfide che abbiamo davanti se ci preparassimo a ponderare le nostre scelte non sulla base di persone, ideologie o partiti, ma ragionando e basta.
Andrea Giannini