La nuova proposta di ristrutturazione del debito greco fa scendere lo spread, ma aggrava la crisi economica: l'Europa ammette, infatti, che il debito di Atene non potrà mai essere ripagato interamente
Questa settimana lo spread è sceso sotto la soglia psicologica dei 300 punti base. Subito dalla curva della tifoseria occupata dalla grande stampa si è scatenato un tripudio di striscioni e cori da stadio: un’ovazione per Mario Monti, che punta deciso – ha fatto sapere – a quota 287, la metà esatta di quando si insediò l’anno scorso (giusto per poter dire: “Quanto so’ figo? v’ho dimezzato il costo del debito!”).
Ma il governo italiano, nella fattispecie, c’entra poco: il momentaneo balzo si deve all’annuncio del governo greco di voler investire 10 miliardi per ricomprarsi parte dei bond già emessi, pagandoli in media il 34,1% del loro valore nominale. L’importanza dell’annuncio si deve al fatto che il riacquisto di bond già emessi (in inglese buyback) sia una delle condizioni imposte dalla Troika per sbloccare 240 miliardi di euro di aiuti promessi. A questo si sono aggiunte le voci di un’apertura della Germania ad un’ipotesi di cancellazione di quote del debito greco. Nonostante l’immediata smentita del governo tedesco, ormai i mercati avevano cominciato a trarre le loro conclusioni.
Se i Greci – questo sarebbe il ragionamento, a quanto ci viene detto – riescono a ottenere un taglio di parte del debito, allora questo nel suo complesso diminuisce (e quindi aumenta la possibilità di ripagarlo) e gli aiuti internazionali si sbloccano (e quindi nuova liquidità da ossigeno ad Atene). In questo modo la Grecia rientrerà in carreggiata, gli spread caleranno ancora, l’euro si salverà e ovviamente ci sarà pace e prosperità per tutti, più 40 vergini a disposizione di ogni uomo (e di ogni donna, così non mi accusate di maschilismo).
In realtà le cose non stanno così, per motivi che chi segue questa rubrica ha ormai capito (e che hanno capito anche in giro per il mondo). Innanzitutto c’è il solito segreto di Pulcinella (di cui ho già scritto e riscritto): il debito muore pubblico, ma nasce privato. Pertanto, ammesso e non concesso che lo si possa ridurre, si otterrebbe comunque l’unico risultato di tamponare l’effetto senza toccare le cause strutturali. Inoltre vale sempre la pena di ricordare che tagliare 20 miliardi (questo il risparmio previsto) in modo così da potersi indebitare per altri 34 (tanto vale la prima tranche di aiuti) sembrerebbe un modo per aumentare il debito, più che per diminuirlo, come la storia della crisi greca ci ha insegnato finora (ma come avrebbe capito da principio anche il peggior studente di ragioneria delle superiori).
Per cui i casi sono due: o la Troika è in mano a persone con l’intelligenza della mosca che continua a sbattere sul vetro per uscire dalla finestra, oppure è chiaro che nella storiella c’è qualcosa che non torna. E direi decisamente: “la seconda che hai detto”, per citare Quelo, il santone di Guzzanti.
Come è noto, infatti, non è la prima volta che si impone ai creditori una ristrutturazione del debito greco. L’ultima fu a marzo di quest’anno, con una riduzione del 75% su un totale di 77 miliardi di euro, che il New York Times definisce giustamente “il più grande default della storia”: perché di questo si tratta. A ben vedere, infatti, se la ristrutturazione di per sé è sicuramente un beneficio per le casse elleniche, vista dall’altra parte, per i creditori, è al contrario una grossa perdita. Per quale motivo, allora, un’istituzione privata dovrebbe accettare perdite nell’ordine del 75% su un credito vantato legalmente? La risposta la sapete già: quand’è che, invece di riavere i 100 euro che avete prestato ad una persona, vi accontentate di 30? Quando valutate realisticamente di non poterne avere di più. Si tratta di una perdita, è chiaro: ma perdere 70 è sempre meglio di perdere 80, 90 o 100. Avete capito quindi cosa pensa tutta l’Europa del debito greco? Che non potrà mai essere ripagato interamente. Altro che ottimismo!
E poi, scusate: ma se un’istituzione privata (diciamo una banca) va in sofferenza perché un credito (diciamo titoli di Stato greci) viene ripagato solo in parte, cosa succede? O per lo meno, cosa è successo finora in Europa? Le banche sono state abbandonate al loro destino oppure lo Stato è intervenuto per salvarle a costo zero? Immagino che abbiate capito l’antifona. Ma giunti a questo punto, vale la pena fare un ultimo sforzo.
Ci sono pochi dubbi che a breve, anche se in un modo magari meno plateale, da Bruxelles se ne usciranno con una cosa del genere: “Cari amici Greci, abbiamo sbagliato. Si, è vero: vi abbiamo imposto tagli, sacrifici, austerità, disoccupazione, povertà e vari morti. Ma forse non è servito a nulla. Per cui, scusate tanto: passiamo al piano B. Ah! Sempre amici come prima, eh?”. Ma in realtà quattro anni di commissariamento non sono passati invano.
Il debito pubblico non è diminuito, anzi: ma la sua composizione è cambiata. Ce lo spiega sempre il New York Times: «Solo nel 2008, tutto il debito governativo o sovrano greco era virtualmente nelle mani dei detentori di bond del settore privato, principalmente banche e fondi di investimento. Ma, in seguito all’intensificarsi della crisi del debito greco e all’intervento delle istituzioni pubbliche, i creditori privati ora ne possiedono solo il 27%». Chiaro il concetto? Non stanno salvando Grecia: si stanno preoccupando solo di chi lasciare col cerino in mano.
Anche se sentite dire tutti i giorni che non ripagare il debito è immorale, resta pur sempre il fatto che innumerevoli volte succede: ed è per questo, tra l’altro, che un bond greco rende il 15% mentre un bund tedesco ha rendimento quasi negativo; perché il creditore (giustamente) vuole un guadagno maggiore per prestare soldi a chi è percepito come più a rischio di insolvenza. Ma questo significa che il rientro dal credito non è assicurato: se lo fosse, non avrebbe senso pagare interessi molto alti per avere denaro a prestito! Qualsiasi investitore vi dirà che l’investimento sicuro al 100% non esiste. Fa parte del mestiere di chi presta denaro fare la valutazione dei rischi: e se si sbaglia, semplicemente sono problemi suoi. E’ questo dettaglio, messo volutamente in secondo piano, che è decisivo per capire perché è importante l’identità del possessore del debito. Se il creditore è un istituto privato, per quanto potente, il governo può sempre dirgli: “Sai che c’è? I soldi che ti devo, non te li do: ormai sono in default e ne sopporterò le gravi conseguenze. Ma se devo scegliere tra te e le pensioni dei miei cittadini, preferisco le seconde”.
Al Fondo Monetario Internazionale questo scherzo non lo puoi fare, perché quando ti ha prestato i soldi si è fatto mettere nero su bianco che il suo credito viene prima di quello di tutti gli altri. Alle banche e ai fondi greci, invece, lo scherzo si potrebbe fare: ma sarebbe darsi la zappa sui piedi. I soldi della BCE, poi, sono soldi dei cittadini tedeschi, olandesi, finlandesi, ma anche italiani e spagnoli: e quindi, in ultima analisi, soldi pubblici. All’appello manca solo qualche istituto privato europeo, soprattutto francese, ma in misura minore anche inglese e tedesco. Ecco perché l’agonia della Grecia è proseguita finora.
Poi, certo: può darsi anche che a Berlino si siano davvero resi conto che il default di Atene segnerebbe la fine dell’euro. E può darsi anche che a Roma pensino davvero che il paese possa salvarsi con l’austerità. Ma resta il fatto che, dal Partenone al Colosseo, la prima esigenza a condizionare ogni strategia anti-crisi è sempre la stessa: evitare il tracollo del settore finanziario privato, scaricando i costi, se necessario, sul settore pubblico, sui contribuenti e sull’economia reale.
Ecco spiegato il motivo, quindi, per cui lo spread scende proprio mentre si registra una disastrosa performance dell’economia italiana: l’aumento delle tasse e la soppressione degli incentivi, che comprimono i consumi e deprimono l’economia reale, sono necessari per garantire ai conti pubblici, nel breve periodo, di sopportare il costo del salvataggio del settore bancario. Nel medio periodo, però, la diminuzione di PIL richiede un nuovo intervento correttivo e la spirale recessiva prosegue aggravandosi: e in questo modo – lo capisce chiunque – il gioco è destinato a non durare a lungo.
Insomma, non è il caso di illudersi, come fa Vito Lops del Sole 24 Ore, che addirittura si prende il lusso di canzonare il gota dell’economia mondiale (“le cassandre”) per aver sempre detto quello che puntualmente si sta avverando. Piuttosto dovremmo imparare a guardare lo spread per quello che è diventato: non un indicatore del rischio di default, ma del “rischio” che una democrazia si svegli e che decida di non essere più disposta a pagare per una crisi che non ha causato.
Andrea Giannini