Romani, Greci ed Egizi festeggiavano il Carnevale, gli antichi Saturnali in onore del dio dell'oro e le "Grandi Dionisiache" di Atene
Il 26 febbraio sarà la prima domenica di Quaresima, quel periodo in cui, in segno di penitenza, la Chiesa ordinava un “carne levamen” (allontanamento dalla carne, per analogia da ”vale” = dire addio) od anche carnem laxare (ridurre) da cui Carnasciale. Deriverebbe da questo monito latino, dunque, l’etimologia del nostro Carnevale riferito al luculliano banchetto che si teneva la sera, precedente il mercoledì delle Ceneri, dal quale iniziava il forzoso digiuno.
Esiste un’altra versione, più accreditata tra le popolazioni nordiche, che il nome trarrebbe origine da “Carrus Navalis”, propiziatoria imbarcazione inghirlandata che i pescatori approntavano, all’inizio della primavera, per un immaginario percorso alla volta degli dei. Feste e riti portatori di fertilità, dedicati alla dea Iside ed assimilabili al nostro Carnevale, erano già presenti 4000 anni fa presso gli Egizi, così come le analoghe greche “Grandi Dionisiache” di Atene, crapule viziose celebrate nel mese di Elafebolione e dedicate a Bacco, dio del vino.
Non ne erano scevri, neppure, i Romani: i lupercali erano cerimonie di purificazione che i sacerdoti “luperci”, seguaci del dio Fauno, ufficiavano il 15 febbraio in una grotta sul monte Palatino mentre i “Saturnali” in onore del dio dell’oro, (Saturno), iniziavano il 17 dicembre e si prolungavano per un intervallo di tempo sovrapponibile alle nostre feste natalizie (inizialmente duravano solo 3 giorni, poi portati a 7).
Caratterizzavano la festa carri festosi tirati da animali bizzarramente bardati, grandi tavolate in cui sedevano insieme schiavi e padroni per la sospensione, temporanea, delle leggi che regolavano i rapporti tra le classi sociali, nonché balli e lazzi che degeneravano, talora, in manifestazioni di lascività e dissolutezza incontrollata.
Dal Quattrocento inizia un’azione moratoria della chiesa per porre un freno agli eccessi ma il Carnevale continuò ad impazzare arricchendosi di nuove tradizioni: duelli di bastoni (da cui l’uso dei manganelli) tra ceti o congreghe rivali, guerriglie virtuali, come quella delle arance ad Ivrea, tra i rioni delle città e roghi di simulacri a ricordo delle celebrazioni proprie delle antiche comunità agresti in cui il fuoco simboleggiava il passaggio dalla morte alla vita.
Ma l’emblema assoluto della festa è stato, da sempre, l’uso diffuso della maschera. Il suo significato intrinseco è da ricercarsi nel sentimento liberatorio con cui l’identità celata si affranca dalla banalità del quotidiano, lasciando l’individuo arbitro di eccedere in comportamenti inusuali sia per ruolo che per dissolutezza. Nella Grecia antica, ad esempio, nascondersi dietro un’effigie serviva a personificare entità inesistenti quali gli dei, parimenti al servo che, nei festeggiamenti carnevaleschi, poteva illudersi per poche ore di essere un vero nobile.
Il volto nascosto, inoltre, impediva l’identificazione di persone protagoniste di “scappatelle” sessuali o veri baccanali, che nulla avevano da invidiare agli atavici rituali pagani celtici in cui gli amplessi, consumati sul nudo suolo, erano vissuti come un omaggio alla Madre Terra, dea della fertilità. Il tutto condito da un po’ di “sana” superstizione perché, secondo la credenza, una maschera ridente aveva il potere straordinario di allontanare le brame maligne di spiriti mal intenzionati.
Adriana Morando
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