Le misure previste, in particolare quelle relative alla detenzione domiciliare, non convincono il direttore del Carcere di Marassi. Il sindacato dei dirigenti penitenziari ritiene che l'unica soluzione praticabile sia l'amnistia
Il Consiglio dei Ministri ha approvato il 16 dicembre il cosiddetto Decreto “Svuota – Carceri”. Un pacchetto complessivo che comprende un decreto-legge sull’emergenza nelle carceri, un disegno di legge con interventi per il recupero dell’efficienza del processo penale ed un regolamento che introduce la Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti.
Ecco le principali misure contenute nel decreto.
Previste due modifiche nell’art. 558 del codice di procedura penale: con la prima si prevede che, nei casi di arresto in flagranza, il giudizio direttissimo debba essere necessariamente tenuto entro, e non oltre, le quarantotto ore dall’arresto, non essendo più consentito al giudice di fissare l’udienza nelle successive quarantotto ore; con la seconda modifica viene introdotto il divieto di condurre in carcere le persone arrestate per reati di non particolare gravità. In questi casi l’arrestato dovrà essere, di norma, custodito dalle forze di polizia, salvo che ciò non sia possibile per mancanza di adeguate strutture o per altri motivi, quali lo stato di salute dell’arrestato o la sua pericolosità. Attraverso l’adozione di questa misura si tenterà di arginare il fenomeno delle cosiddette “porte girevoli” che nel 2010 ha visto coinvolte 21.000 persone detenute per un periodo non superiore ai tre giorni.
Altre importanti novità: passa da 12 a 18 mesi la pena detentiva che può essere scontata presso il domicilio del condannato anziché in carcere; La trasformazione in illecito amministrativo dei reati puniti con la sola pena pecuniaria; La sospensione del procedimento con messa alla prova prevista in caso di reati non particolarmente gravi (puniti con pene detentive non superiori a quattro anni). La messa alla prova consiste in una serie di prestazioni, tra le quali un’attività lavorativa di pubblica utilità (presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato), il cui esito positivo determina l’estinzione del reato; L’introduzione di due nuove pene detentive non carcerarie: la reclusione e l’arresto presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora. Queste pene sono destinate a sostituire la detenzione in carcere in caso di condanne per reati puniti con pene detentive non superiori a quattro anni.
“L’intento del ministro Severino è apprezzabile ma il decreto sulle carceri, se resta come è, avrà un effetto trascurabile, come è già successo con la legge del 2010 sulla detenzione domiciliare” spiega al Sole 24 ore il presidente dell’Unione Camere Penali, Valerio Spigarelli.
“Secondo i dati dell’osservatorio carceri dell’Ucpi, ne usufruirebbero 3.500 detenuti – continua Spigarelli – ben poca cosa a fronte di un sistema che sopporta un affollamento di 68mila persone quando la capienza è di 45mila”.
Anche il disegno di legge che prevede, tra l’altro, la possibilità di usufruire delle misure alternative per i reati puniti con pene non superiori ai quattro anni, non convince il presidente dell’Ucpi “Avrebbe un effetto assolutamente virtuale. Già ora, per quel tipo di reati, anche grazie alla condizionale, si evita il carcere. Per vedere dei risultati è necessario stabilire il limite sulla pena effettivamente irrogata, quindi sulle condanne effettive a quattro anni”.
Ma cosa ne pensano gli addetti ai lavori della nostra città?
“Si tratta indubbiamente di un tentativo lodevole del Governo – afferma il direttore del carcere di Marassi, Salvatore Mazzeo – ma sono scettico sul fatto che possa davvero fornire risultati concreti. La misura studiata dal precedente Ministro della Giustizia Angelino Alfano, quella che prevedeva di scontare l’ultimo anno di pena presso il proprio domicilio, è stata sfruttata solo da 3000 detenuti italiani. Anche il nuovo provvedimento, che consente questa opportunità per gli ultimi 18 mesi di pena, nasce già con un vulnus. La detenzione domiciliare infatti presuppone la sussistenza di un domicilio idoneo. A Genova, come in molte altre realtà soprattutto del Nord Italia, abbiamo una presenza di detenuti stranieri pari al 60%. Di conseguenza è difficile trovare un cittadino straniero, in particolare nel nostro caso di area magrebina, che disponga di un luogo consono dove scontare la propria pena”.
Per quanto riguarda la soluzione che prevede la custodia dell’arrestato da parte delle forze di polizia, il sindacato Silp Cgil manifesta la sua preoccupazione “Pur riconoscendo la validità del principio che la nuova normativa vuole sostenere a tutela di coloro che spesso vengono reclusi solo per pochi giorni presso le sovraffollate carceri italiane dobbiamo ricordare che i locali per la detenzione temporanea della Questura di Genova sono di piccola metratura, angusti e inadeguati, non a norma per garantire l’attuale afflusso di fermati – spiega il segretario Roberto Traverso – Ci chiediamo se qualcuno si preoccuperà di come garantire in concreto il servizio di vigilanza dei numerosi fermati che dovrebbero essere ospitati temporaneamente in Questura: Dove li mettiamo? con quale personale li vigileremo? In quali condizioni igieniche?”.
Rimane il dato di fatto di una situazione insostenibile, in particolare per quanto riguarda la Casa Circondariale di Marassi, oggi affollata da 830 detenuti, quasi il doppio del consentito.
“Il sindacato dei dirigenti penitenziari sostiene l’amnistia – dichiara Mazzeo – è l’unica soluzione praticabile se vogliamo dare respiro alle carceri attraverso l’uscita di almeno 20 – 25 mila detenuti. Numeri che consentirebbero alle strutture penitenziarie di rientrare nei limiti di capienza consentiti dalla legge. E garantirebbe condizioni più vivibili per i reclusi”.
L’ultimo indulto aveva permesso di fare uscire 300 dei 630 reclusi all’epoca nel penitenziario genovese.
Ma solo il 40% dei beneficiari, nel giro di un anno, non aveva più fatto ritorno in carcere.
“Occorrono interventi strutturali e non estemporanei affinché queste persone, una volta fuori dalle mura del carcere, non siano abbandonate al loro destino onde evitare che nel giro di poco tempo siano nuovamente invischiate nel circuito criminale – spiega Mazzeo – la precedente esperienza ha insegnato che non è sufficiente seguire gli ex detenuti solo nella fase iniziale successiva al rilascio ma, al contrario, il compito delle istituzioni pubbliche è quello di favorire un loro completo reinserimento nella società civile”.
Quindi è necessario un affiancamento continuo degli assistenti sociali senza limiti temporali e poi bisogna mettere in condizione i volontari, le associazioni, le cooperative e tutto quel variegato mondo che ruota intorno al carcere, di poter svolgere appieno il proprio ruolo sfruttando tutte le opportunità – lavorative ma non solo – messe a disposizione anche dopo l’uscita dalle strutture penitenziarie.
“Le misure alternative alla detenzione sono la strada da percorrere – continua Mazzeo – Ma è necessaria una progettualità che implica un costo. Spesso insostenibile. Penso a quanti lavori di pubblica utilità si potrebbero svolgere a Genova. Ad esempio un paio di anni fa con un gruppo di detenuti ci siamo occupati della pulizia del Parco del Peralto. Oggi siamo pronti a riproporre l’idea. Ma mancano i soldi, c’è poco da fare. Bisogna studiare dei progetti che prevedano delle borse lavoro come quello che stiamo portando avanti con 12 detenuti presso il cimitero di Staglieno. Queste sono soluzioni che rappresentano una risposta concreta all’emergenza carceraria”.
Matteo Quadrone
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