Il premier sbarca a Bruxelles e chiede flessibilità ma trova porte chiuse, anzi, sbattute in faccia. Intanto il PIL crolla e i conti fatti nei mesi scorsi non tornano. Si potrebbe fare la voce grossa, minacciare l'uscita dall'euro e sforare il deficit, ma a Palazzo Chigi si opterà per il solito bagno di sangue
Riassunto delle puntate precedenti. Renzi è il terzo premier in tre anni che va a Bruxelles provando a “sbattere i pugni sul tavolo” con l’intento di conseguire sempre il solito obiettivo: la fantomatica “flessibilità”.
Il punto di principio è questo: dato che qualche “riforma” dal 2011 a oggi l’abbiamo anche fatta, dato che l’impegno per il rigore nei conti pubblici indubbiamente c’è stato e dato che il governo italiano ha recuperato “credibilità” dopo gli anni bui di Berlusconi, allora forse l’Europa può premiare questi sforzi concedendoci qualche deroga. D’altronde abbiamo messo il pareggio in Costituzione: il che significa che l’Italia si è impegnata a non fare più nuovo debito. E anche se questo principio entrerà strutturalmente in vigore solo nel 2016, nel frattempo siamo stati molto attenti a mantenere il deficit sotto controllo, rispettando scrupolosamente il famoso parametro del 3% (cosa che non si può dire di molti altri paesi europei, compresa la Francia).
Ecco dunque l’idea del governo: scorporare dal calcolo la spesa per investimenti e ricerca. In questo caso, infatti, saremmo di fronte non alla solita (nella vulgata corrente) “spesa pubblica improduttiva”, ma a una spesa indubbiamente “buona”; una spesa, cioè, che è destinata a ripagarsi nel corso del tempo con un ritorno in termini di sviluppo e crescita. Pertanto, nella particolare congiuntura economica, essa diventerebbe un elemento di stimolo anche per rendere più agevole il compito dell’Italia di garantire conti in ordine nel medio periodo.
D’altra parte è già prevista la possibilità di un disavanzo eccessivo, benché “eccezionale e temporaneo”. Infatti l’articolo 2 del Regolamento n. 1467/97 stabilisce che un superamento del 3% annuo di deficit è possibile, purché esista una stima credibile di rientro e qualora si possa tenere conto delle “modalità improvvise ed inattese con cui la recessione si è manifestata o della diminuzione cumulata della produzione rispetto alle tendenze passate” – più o meno le stesse parole con cui viene giustificato, ufficialmente, il ritardo della ripresa economica. Insomma, l’Italia ha qualche ragione a chiedere un’applicazione più “morbida” dei parametri; e questo anche senza tenere in alcun conto l’aspetto politico, dato dall’opportunità di non vanificare il successo elettorale di Renzi, unico leader in Europa ad aver saputo davvero contenere la “deriva” euro-scettica.
Ciononostante il governo ha raccolto una sfilza imbarazzante di rifiuti. Ha detto no il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble; hanno detto no Manuel Barroso e Angela Merkel; e da ultimo ha detto no persino il “nostro” Mario Draghi, che si è pure preso il lusso di una sottile derisione: «Non mi è chiara, ma forse perché non sono un uomo politico, la chimica di flessibilità che garantisca alle regole l’essenziale credibilità» (come a dire: “Non veniteci a raccontare la storia della flessibilità perché qua non attacca”). Rimbalzato su questo impenetrabile muro di gomma, per non farsi mancare nulla Renzi ha incassato pure lo schiaffo di un primo rifiuto alla sua proposta di nomina della Mogherini per la (piuttosto inutile) poltrona di “ministro degli Esteri” dell’Unione.
Come mai l’Italia ha tutta questa difficoltà a ottenere anche cose che in realtà non cambiano nulla, come piccoli riconoscimenti o pochi decimi di percentuale in più di spesa? Naturalmente la spiegazione è che la moneta unica non funziona, perché costringe paesi diversi a una lotta dove solo uno, il più forte, può vincere: una logica che incentiva chi è in posizione di forza (il capitalismo nordeuropeo) ad accampare ogni più piccola pretesa, riducendo parallelamente il potere di contrattazione di chi è in posizione di debolezza e ha sempre rinunciato a difendere i suoi interessi (noi). Ma ovviamente chi non vuole mettere in discussione l’euro questo non lo può dire: e dunque deve trovare altre spiegazioni.
Renzi, nell’attesa di tornare alla carica, cerca di concentrarsi sul fronte interno. La linea del governo è che la riforma della Costituzione è indispensabile per la nostra “credibilità”: e una volta diventati credibili, potremmo rivendicare meglio i nostri interessi con i partner in Europa. Peccato che sia esattamente la stessa scusa con la quale Monti ci ha rifilato la riforma Fornero: e in tre anni i risultati in termini di potere contrattuale non si sono visti. Inoltre questa giustificazione è smentita dallo stesso ex-commissario europeo ed ex-premier, che, ospite qualche giorno fa di In Onda, ha ribadito come all’Europa non interessino tanto le “riforme istituzionali”, quanto quelle “economiche” (che poi significa salvaguardare gli interessi dei paesi creditori).
La versione di Monti sugli insuccessi diplomatici italiani è però ancora più pittoresca. Secondo l’uomo della Bocconi è tutto un problema di comunicazione: anziché chiedere flessibilità sul rispetto del rigore dei conti, dovremmo chiedere rigore nel rispetto della flessibilità (visto che è già nero su bianco nei trattati). Insomma, si va dalla Markel, le si fa un giochino di parole e quella subito si esalta: «E’ ffero! Non ci affere pensaten! Allora ffoi non essere più soliti schifen di Italianen spaghetti e mandolinen, che prova sempre a infinocchiare tutten: ffoi essere fferi ffirtuosen come noi Deutscheland! Allora spendeten! Spendeten pure quanto ffolere!!». Insomma, siamo alle comiche.
Ciononostante in linea teorica questo teatrino di giustificazioni potrebbe reggere a tempo indefinito grazie alla compiacenza dei media italiani, che sorvolano come niente fosse sull’inaccettabile misto di sottovalutazione e incompetenza del premier. Ma c’è un problema: nel frattempo il PIL crolla. Questo significa che i conti fatti non tornano, e dunque per il governo si prospettano due strade.
In primo luogo si può varare in autunno una nuova manovra da (secondo Fassina) 23 miliardi tra tagli e tasse: in questo modo si farebbe contenta l’Europa, ma si ammetterebbe l’insuccesso politico e si darebbe un duro colpo alla popolarità di Renzi (e forse anche alla tenuta del governo); oppure in alternativa ci si può imputare e alzare il tiro con i partner, magari minacciando un’uscita dell’Italia dall’euro qualora non si venisse accontentati sull’allentamento del rigore. In entrambi i casi risulterebbe evidente l’assurdità della linea di rispetto degli impegni europei – linea di cui il Partito Democratico è stato il più fiero (e talvolta unico) sostenitore.
C’è però una terza via, caldeggiata anche da esponenti autorevoli del fronte euroscettico: far finta di nulla e sforare il deficit. Ci sono varie ipotesi su questo punto, ma l’idea è sempre la stessa: sforare ci farà bene e prima che in Europa organizzino delle sanzioni passeranno anni. Nel frattempo ci sono buone possibilità che, con maggiore spesa pubblica, le performance economiche si aggiustino.
Questo non impedirà alle contraddizioni dell’euro di deflagrare: anzi le evidenzierà. E certo c’è sempre il rischio di un attacco speculativo dei mercati; anche se, per la sua pretestuosità, sarebbe immediatamente riconosciuto come mirato e “punitivo”, evidenziando quindi la necessità del recupero di quel vecchio assetto monetario che garantiva riparo da queste pericolose aggressioni finanziarie. Per il resto per i socialdemocratici sarebbero tutti vantaggi: eviterebbero lo stillicidio dell’economia italiana, darebbero l’impressione di fare finalmente i nostri interessi e forse avrebbero anche il tempo di organizzare una ritirata dal Vietnam della difesa dell’euro a oltranza.
Se però dovessi proprio tirare a indovinare su quale strada Renzi e Padoan decideranno alla fine di percorrere, allora la scommessa è quasi obbligata: e noi faremmo meglio a prepararci al solito autunno di lacrime e sangue…
Andrea Giannini