L'orientamento keynesiano o “socialdemocratico”, dato per spacciato tra gli anni '90 e gli anni 2000, sta prendendo di nuovo piede tra gli economisti, per chiedere allo Stato di intervenire direttamente nell'economia e farsi carico di grossi progetti di investimento
È talmente raro che le trasmissioni di approfondimento facciano davvero “approfondimento” che, quando capita l’occasione di citarne una, non c’è altra notizia che tenga: bisogna dare spazio a chi compie l’atto rivoluzionario, per questi tempi, di un minimo riequilibrio informativo. È accaduto infatti questa settimana che venisse affrontata, anche se solo a livello divulgativo, la grande questione della politica economica: quali tipi di intervento o quale tipo di atteggiamento deve tenere il governo nei confronti dell’economia? In che modo si può operare per creare più occupazione, più sviluppo e più benessere?
Si tratta, come è evidente, di un tema assolutamente prioritario, tanto più nel corso di una crisi economica ancora molto dura. Eppure non se ne sentiva parlare affatto. Anzi, nel corso dell’ultimo ventennio si è come rimosso l’argomento dal dibattito pubblico; quasi che la risposta fosse scontata, quasi che alla gente non dovesse interessare avere diversi punti di vista sul modo di incentivare l’economia o di individuare i settori settori strategici per lo sviluppo del paese. Infine tre anni fa, come è ormai noto, lo Stato italiano abdicava formalmente a questo ruolo, rimettendolo nelle mani sapienti della Commissione Europea e della BCE che da allora lo interpretano predicando incontrastate rigore contabile e liberalizzazioni.
Questo muro dell’ortodossia è stato timidamente graffiato per la prima volta un paio di sere fa, nel corso di una puntata di Otto e Mezzo dal titolo: «Renzi, liberista o socialdemocratico?». Ospiti di Lilli Gruber erano, da una parte, il professor Francesco Giavazzi, editorialista di punta del Corriere della Sera e vecchia “conoscenza” di questa rubrica (per via di alcuni fondi su euro e stato sociale scritti insieme ad Alberto Alesina) e, dall’altra, la professoressa Mariana Mazzucato, economista dell’Università del Sussex.
I due ospiti rappresentavano ovviamente, come è nello stile del giornalismo italiano, i due diversi punti di vista sul modo di intendere la politica economica. Da qui – immagino – la prima sorpresa dello spettatore, che per la prima volta dopo anni viene posto a conoscenza del fatto che non esiste una sola verità sull’argomento: cioè le “ricette” a cui da anni ci stiamo sottoponendo, senza alcuna discussione pubblica, non sono le uniche possibili. Non solo. Scopriamo addirittura che non un nazionalista di estrema destra o un teorico delle scie chimiche, ma proprio una di quelle figure che piacciono tanti ai “liberals”, una donna che insegna economia in Inghilterra (cosa che fa tanto “minoranze” e tanto “successo italiano all’estero”) sostiene tranquillamente una tesi del tutto opposta a quella della “Europa”, dei partiti “moderati” e dei giornali “seri”.
E chi lo avrebbe mai detto che era possibile una visione economica alternativa? Beh, ad esempio il sottoscritto. Già a settembre del 2013, infatti, avevo provato a spiegare, entrando in temi che non mi competono come un elefante in cristalleria, che nel dibattito economico attuale più che in passato si danno almeno due visioni contrapposte: visioni che però non trovano corrispondenza nell’offerta politica, dato che i partiti, da destra a sinistra, in Italia come in Europa, sono tutti sbilanciati verso un solo polo del dibattito.
Questo polo è incarnato discretamente dalle idee del professor Giavazzi, il quale, interrogato dalla collega su quali fossero i problemi delle imprese italiane (visto che si parla sempre dei problemi dello Stato, ma mai di quelle delle imprese…), rispondeva eloquentemente: “i problemi delle imprese sono le tasse alte e le rigidità del mercato del lavoro”. Al che la professoressa Mazzucato aveva buon gioco a dimostrare come questi siano in realtà problemi dello Stato, essendo quel soggetto che solo può elevare la pressione fiscale e stabilire le regole nei rapporti di lavoro: e dunque dare questo tipo di risposta equivale a dire che il privato non ha colpe.
Nel corso del dibattito tra i due economisti questa differenza di vedute emergeva in modo sempre più evidente, anche per il profano: da una parte la Mazzucato vuole definire compiti e punti di forza sia del pubblico che del privato; dall’altra invece Giavazzi propende nettamente per il privato. Questa contrapposizione ha evidentemente radici ideologiche, o comunque risponde a un orientamento generale del pensiero: perché naturalmente non può esistere una rigorosa dimostrazione empirica che stabilisca, una volta e per sempre, chi abbia ragione in questa diatriba tra pubblico e privato. Ciò detto, però, se guardiamo a chi offre la risposta più radicale, allora non c’è partita.
Secondo Giavazzi la politica economica si fa solo con l’antitrust e le detrazioni fiscali: compito dello Stato è dunque quello di fare il “guardiano dell’economia”, evitando che si instaurino regimi di monopolio e premiando con sempre minori tasse quelle imprese che investono; per il resto deve assistere da spettatore al magnifico dispiegamento del libero mercato e all’operare chirurgico della famosa “mano invisibile” di Adam Smith, la quale, mentre ognuno è impegnato ad arricchirsi privatamente, dispone le cose perché si realizzi magicamente la società migliore possibile.
Secondo la Mazzucato, invece, lo Stato può esercitare un ruolo positivo: la spesa pubblica non è sempre e solo “improduttiva”. Di qui evidentemente l’ennesima sorpresa dello spettatore: c’è ancora qualcuno oggi che va in giro a dire che lo Stato non dovrebbe tagliare la spesa, bensì spendere? Questo Stato italiano “corrotto” e “sprecone”? Non solo.
Mentre Giavazzi con grave sprezzo del ridicolo vagheggiava di un’austerità “buona”, con tagli di spesa, e un’austerità “cattiva”, con aumenti di tasse, la Mazzucato spiegava che internet è il risultato di investimenti strategici del governo americano nel settore della difesa; sosteneva che la FIAT in Italia avesse smesso di fare investimenti perché lasciata libera dal governo (mentre negli Stati Uniti Obama sta mettendo sotto pressione Marchionne perché la Chrysler sviluppi nuovi motori ecologici); argomentava che la corruzione di questi giorni non va usata per demonizzare il pubblico, perché “la corruzione c’è in tutti i paesi”; e addirittura ricordava il ruolo importante di aziende statali come l’IRI, al cui solo sentir pronunciare il nome, mancava poco che Giavazzi non cadesse dalla sedia.
Ovviamente la discussione non si è risolta: la Mazzucato ha testimoniato con la sua persona che un orientamento keynesiano o “socialdemocratico”, dato per spacciato tra gli anni ’90 e gli anni 2000, sta prendendo di nuovo piede tra gli economisti, per chiedere allo Stato di intervenire direttamente nell’economia e farsi carico di grossi progetti di investimento; Giavazzi, dal canto suo, ha probabilmente continuato a pensare che queste sono cose più adatte a Stalin e ai suoi piani quinquennali e che l’economia la fanno i bravi imprenditori, che poi sono “quelli che esportano” (e vai di mercantilismo).
P.S.
E Renzi? Alla fine il premier è liberista o socialdemocratico? La Mazzucato sospendeva il giudizio, in attesa di capire se dal Presidente del Consiglio potesse venir fuori qualcosa di più concreto degli 80 euro. Per Giavazzi, invece, Renzi merita un bel 7+, perché ha cambiato qualche burocrate, ha tolto qualche tassa e ha rimosso qualche funzionario pubblico in odore di corruzione: è poco, ma è partito con il piede giusto. Dunque Renzi, un premier “di sinistra”, piace tanto ai liberisti: e chi l’avrebbe mai detto?
Andrea Giannini