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Nuove tasse, riforma delle pensioni e riforma del lavoro: ma la "bomba dei derivati" è sempre dietro l'angolo, pronta ad esplodere
A più di quattro mesi di distanza dall’insediamento, possiamo tentare un primo bilancio dell’operato del governo Monti, cogliendo l’occasione anche per tirare le fila di una serie di considerazioni fatte in precedenti articoli.
La Genesi: perché Monti?
Tra ottobre e novembre del 2011 la tensione dei mercati sulla sostenibilità del debito pubblico italiano sale ai massimi e il governo Berlusconi, tra scandali di tutti i tipi, una risicata maggioranza parlamentare in cui si mercanteggiano voti e la manifesta incapacità di operare scelte risolutive, è in crisi irreversibile di credibilità. Quando l’8 novembre il governo approva il rendiconto senza raggiungere la maggioranza, la crisi politica è certificata. Il 16 novembre, a tempo di record, c’è già il passaggio di consegne e inizia il governo Monti, fortissimamente voluto dal Presidente della Repubblica. Non c’è dubbio, infatti, che la responsabilità di questa nomina sia stata assunta in pieno da Giorgio Napolitano, che ha spinto al limite tutte le prerogative che gli attribuisce la Costituzione per costruire l’accordo tra le forze politiche necessario a sostenere il nuovo governo tecnico. Se puntare sulla figura di Monti sia stata una scelta azzeccata o meno, ce lo dirà solo la Storia.
Tuttavia resto del parere che un governo politico non fosse un’opzione praticabile. Le opposizioni in parlamento non avevano numeri sufficientemente ampi per governare, e pure l’ipotesi del voto anticipato non dava sufficienti garanzie che si potesse insediare una maggioranza forte e stabile: la destra era (e resta) in fortissima crisi di consensi e la sinistra, dal canto suo, nonostante la lunga agonia del governo Berlusconi, si era presentata all’appuntamento ancora in fase di costruzione, senza un’alleanza precisa e senza un programma, a causa del tafazzismo cronico del PD e dell’incapacità di IDV e SEL di guidare il processo di aggregazione di una coalizione di governo. Che si potessero ipotizzare scenari alternativi al governo tecnico mi sembra quindi poco credibile; e dunque, se questo governo prende decisioni che non piacciono, o peggio se davvero, come ipotizzano alcuni, Monti è un emissario di Goldman Sachs che fa gli interessi della finanza internazionale, resta comunque il fatto che i partiti non sono in cabina di regia solo per la loro inadeguatezza, certificata dai sondaggi che fissano il tasso di fiducia nei loro confronti al 4 %. Insomma, condividono tutte le responsabilità del caso.
Dal Vangelo secondo Mario: tecnica Vs politica.
Anche se sui partiti possiamo dire tutto il male possibile, ciò non significa incensare Monti a prescindere. Occorre invece valutare il suo operato nel merito di quanto fatto, evitando di farsi fuorviare da classificazioni che non hanno alcun senso, ad esempio laddove si pretende di distinguere tra “tecnici” e “politici”. Secondo questa distinzione, infatti, il governo “politico”, in quanto eletto dal popolo, dovrebbe avere l’autorità e la forza per prendere grandi scelte; mentre un governo “tecnico”, in quanto chiamato a svolgere un compito ristretto e poi a dimettersi, dovrebbe preoccuparsi solo di quello, senza urtare la normale dialettica politica e mettendo a capo dei vari ministeri figure di riconosciuto valore professionale che si occupino semplicemente dell’ordinaria amministrazione. Tuttavia un governo tecnico a cui si chiede nientepopodimeno che di salvare il paese dalla bancarotta in un anno e mezzo difficilmente potrà permettersi di adottare un basso profilo. A ciò si aggiunga che ormai, a causa del discredito di cui gode la classe politica e degli equivoci che si generano dalla terminologia, l’aggettivo “politico” ha acquisito per tanti una valenza negativa, mentre l’aggettivo “tecnico” ispira, al contrario, un senso di rassicurazione e competenza. Cioè il “tecnico” farà bene per forza, perché è competente. Ora, è ovvio che le cose non siano così semplici. Anzi, non esiste praticamente area dello scibile umano in cui gli esperti, per quanto esperti essi siano, non si dividano aspramente; e questa è la dimostrazione più tangibile del fatto che avere una preparazione tecnica non sempre permette di poter distinguere con sicurezza una verità univoca.
Ma soprattutto la politica non è questione di verità, ma di accordi e consensi. Il politico media e cerca compromessi fra le parti, mentre il tecnico dovrebbe essere interpellato quando c’è bisogno di pareri tecnici. Un tecnico può dire quanto potrebbe costare realizzare un’opera e a cosa potrebbe servire: ma la decisione se costruirla o meno è politica, perché dipende dalle priorità che una società si da. Ecco perché il governo Monti non si può definire “tecnico”: perché si è segnalato per il decisionismo fortissimo con cui ha intrapreso le scelte più smaccatamente politiche degli ultimi vent’anni, scelte per nulla neutre e su cui si può tranquillamente dissentire. Piuttosto la differenza tra un governo politico e un governo tecnico dovrebbe essere aggiornata a partire da un’altra costatazione: vale a dire che il governo politico deve stare attento al fatto che renderà conto agli elettori, ed è quindi disincentivato dal prendere decisioni impopolari per la gente; ma dall’altra parte il governo tecnico deve rendere conto al parlamento, ed è quindi disincentivato dal prendere decisioni impopolari per la maggioranza che lo sostiene. Una ragione in più per non cadere nell’equivoco che la competenza e la serietà di Monti (che non è in discussione) sia di per sé garanzia sufficiente che quello che fa è buono e giusto.
Opere: cosa è stato fatto e pubblicizzato…
Il governo Monti, che formalmente è sempre impegnato a portarci fuori dalla crisi, si è segnalato soprattutto per nuove tasse, per la riforma delle pensioni e per quella, in dirittura di arrivo, sul mercato del lavoro. Le liberalizzazioni non si sa bene che fine abbiano fatto. Gli sgravi alle imprese sbandierati dal ministro Passera hanno impressionato poco. Ancora meno effetto ha avuto il minimo aumento dell’aliquota sui capitali rimpatriati con l’ultimo scudo fiscale, che avrebbero dovuto portare nelle casse dello Stato quasi 3 miliardi di euro, ma che nella pratica, come ha spiegato Radio 24, probabilmente non si intascheranno mai. Verrà ricordata, invece, la storica riforma delle pensioni, un provvedimento ambizioso e salutare per i conti pubblici, che però deve essere inserito nel quadro economico complessivo per poterne valutare l’utilità e, soprattutto, l’equità. Ci si chiede, ad esempio, cosa si possa fare per quei tanti giovani che oggi, avendo un reddito troppo basso o essendo precari, si trovano in condizioni pensionistiche molto svantaggiose. Ci si chiede cosa ne sarà dei 350.000 “esodati” e “mobilitati” che, pur avendo raggiunto un accordo di pensionamento, da oggi, proprio a causa dell’aumento dell’età pensionabile, si trovano improvvisamente senza pensione e senza lavoro. Ci si chiede anche come verrà gestito il mercato del lavoro, visto che da adesso i normali lavoratori dovranno passarci 40 anni e più. I giornali della buona borghesia e dei circoli industriali non fanno che parlare dei pregiudizi ideologici della CGIL, ma la realtà è che i lavoratori cominciano a sentirsi presi di mira. E hanno anche paura, perché non è affatto chiaro cosa succederà, se davvero per i licenziamenti cosiddetti “economici” rimarrà escluso il reintegro. Eppure il “modello tedesco“, caldeggiato dalla CISL e probabilmente anche dalla CGIL, prevede il reintegro in tutti i casi. E in Germania i sindacati partecipano direttamente alle decisioni, dato che siedono addirittura nei consigli di amministrazione delle aziende. In Italia, invece, se si continua ad escludere la possibilità di reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato, basta che l’azienda riesca a dimostrare di non aver licenziato per motivi discriminatori di razza o religione – cosa molto rara, vista la tendenza a delocalizzare nel terzo mondo… – oppure di natura disciplinare, e il gioco è fatto: l’azienda adduce motivazioni economiche ed ecco che, anche se non sono giustificate, il lavoratore resterà comunque a casa. Si tratterebbe pertanto di un’arma di ricatto potentissima per le grandi aziende, che si potranno così permettere di “comprare” il diritto di licenziare un lavoratore semplicemente pagando, mal che vada, due anni di mensilità. Non si capisce per quale motivo Monti e la Fornero non vogliano rivedere questa formulazione. A meno che, ovviamente, non sia tutto un pretesto (questo si, ideologico) per spaccare il PD e isolare la CGIL. In ogni caso, se persino il neo presidente di Confindustria Squinzi ammette che l’articolo 18 non è una priorità, è evidente che, qualunque sia la formulazione finale, i benefici per l’economia italiana non saranno decisivi.
Molto più grave, invece, dal punto di vista dell’impatto sull’economia reale, è stato l’aumento dell’IVA e quello sulle accise, con i prezzi della benzina alle stelle. Detto questo bisogna anche ammettere che il governo qualcosa di indubitabilmente buono ha fatto. Se, ad esempio, davvero la Chiesa pagherà l’IMU sui beni immobili ad uso commerciale, Monti avrà concluso una grande impresa. Di sicuro è stato saggio rinunciare alla candidatura di Roma per le Olimpiadi 2020, che sarebbe stata con ogni probabilità una voragine di spesa senza fondo. Con lo stesso principio, però, vale a dire evitare grosse spese in tempo di crisi, si sarebbe dovuto rinunciare anche alla Torino – Lione. Questa tratta, infatti, ci costerà ben di più dei 3 miliardi scarsi che ha preventivato il governo, a fronte di benefici incerti a dir poco. Basterebbe andarsi a rivedere su internet quei (rarissimi) dibattiti dove i “tecnici” a favore confrontano le loro ragioni con quelle dei “tecnici” che sono contro, per capire che i finanziamenti europei probabilmente saranno meno di quelli preventivati (e la differenza la mettiamo noi), che i preventivi non sono mai rispettati (nemmeno in Europa, figuriamoci in Italia) e che l’obiettivo dell’opera, cioè spostare le merci dalla gomma alla rotaia, in casi analoghi non è mai stato raggiunto, se non a prezzo di realizzare non una, ma una pluralità di infrastrutture (per cui i soldi mancano) e di tassare drasticamente il trasporto su camion (settore che già oggi è allo stremo e opera blocchi e scioperi un po’ in tutta Italia). Davvero ci conviene tutto questo? Eppure la fiducia di cui gode Monti sembra metterlo al riparo da qualsiasi obiezione. Il ricordo di quello che c’era prima gioca la sua buona parte; ma soprattutto sembra innegabile che Monti abbia già ottenuto il risultato dei risultati: abbassare lo spread.
… e omissioni: cosa è stato fatto e taciuto
In effetti non si può negare che a Monti vada il merito di una drastica riduzione dello spread, l’indice che esprime la differenza tra quanto costa indebitarci rispetto a quanto costa ai Tedeschi. Il 9 novembre 2011 lo spread correva fino a quota 575 punti base: nel momento in cui scrivo siamo a 310 tondi, meglio della Spagna che oggi è percepita più a rischio di noi. Quindi dobbiamo concludere che pensioni, liberalizzazioni, riforma delle regole sul lavoro e persino l’aumento della tassazione siano stati gli ingredienti decisivi della ricetta che ci ha salvato dalla bancarotta? Assolutamente no. O meglio: un contributo rilevante queste misure l’hanno pur dato. Non si può escludere, ad esempio, che se Monti incasserà una riforma sul lavoro contro il parere della CGIL, al di là del merito della riforma, ciò non sia letto dai mercati come un segnale simbolico indicativo del fatto che in Italia è possibile fare scelte coraggiose contro le resistenze sociali: e quindi che non ci sia una reazione positiva delle borse e una diminuzione ulteriore dello spread. Può darsi che il carisma di Monti e il valore che gli investitori attribuiscano alla sua opera abbia davvero contribuito a sciogliere le tensioni sull’Italia. Ma il punto è che, in termini sostanziali, tutto questo non ha alcun senso. Per anni si è pensato esattamente il contrario, ma oggi pochi economisti si azzarderebbero a sostenere che i mercati abbiano andamenti razionali e sensati. In realtà sono irrazionali, in preda alle ansie e alle paure, magari ingiustificate, che fanno parte della vita di tutti. Nei mercati non si sa tutto, molte informazioni sono nascoste, l’investitore della strada è suggestionabile, insomma: il rischio di valutazioni errate è sempre presente. A volte ci sono esplosioni di fiducia ingiustificate che determinano bolle speculative o timori inesistenti che paralizzano gli scambi. C’è addirittura un ramo, l’economia comportamentale, che si occupa proprio di questo. Ma non basta.
Nel dibattito pubblico italiano c’è la tendenza, per dire così, a “tirare lo spread per la giacca”, a voler dimostrare che i mercati reagiscono in base a quello che facciamo in politica. Ma in realtà c’è un motivo ben più sostanziale che spiega come mai lo spread è sceso. Si tratta della “bolla della liquidità“. L’altro Mario, Draghi, quello che guida la BCE, ha prestato soldi alle banche europee al tasso dell’1 %. Le banche hanno reinvestito in titoli di Stato, facendo abbassare lo spread e assicurandosi a costo zero tassi di rendimento molto alti. Il nostro governo, poi, ha messo la garanzia dello Stato sui debiti delle banche italiane, alzando così la posta in gioco e scoraggiando la speculazione. Eppure le banche, preoccupate soprattutto di ricapitalizzarsi, non hanno allentato i cordoni del credito e di conseguenza i benefici per l’economia reale non si sono sentiti. Non c’è dubbio che l’effetto di guadagnare tempo, allentando la tensione e spostando le tensioni dei mercati altrove (leggi Spagna), sia stato ottenuto. Ma al di là di questo, al di là della psicologia dei mercati, rimane il fatto che il quadro complessivo dell’economia non è per niente roseo: il debito pubblico rimane elevatissimo, l’obiettivo di ridurre il deficit annuo (vale a dire le spese non coperte) non è ancora stato raggiunto e soprattutto siamo in piena recessione. Monti ha fatto qualche passettino avanti che, se vogliamo, è significativo in termini simbolici e ha anche il pregio di essere strutturale. Ma ha scaricato tutto il peso sui lavoratori e sulla pressione fiscale, che minaccia di uccidere sul nascere un’eventuale ripresa. E soprattutto, siccome i problemi ci sono sempre e il mercato è stato inondato solo temporaneamente da una liquidità limitata che non è il frutto della produzione di ricchezza, la bolla potrebbe scoppiare presto e le nuvole potrebbero tornare a raddensarsi.
E poi c’è sempre la “bomba derivati” in agguato. Recentemente, per contratti stipulati nel lontano 1994 da Mario Draghi, quando era al ministero del Tesoro, abbiamo pagato a Morgan Stanley 2,5 miliardi di euro (attenzione: parliamo di miliardi! – E’ lo 0,15 % del PIL e metà di quanto lo Stato prevede d’incassare quest’anno grazie all’aumento IVA!). Quanti di questi strumenti finanziari a orologeria sono pronti a scoppiare nelle casse pubbliche? E’ un segreto. O meglio, si sa che il debito dello Stato in titoli derivati ammonta a 160 miliardi e il governo assicura che le condizioni capestro che hanno permesso a Morgan & Stanley di guadagnarci non sono state più sottoscritte. Ma se sia vero o no, è impossibile verificarlo, perché lo Stato non ci da le informazioni. Il New York Times è convinto che l’Italia si sia esposta moltissimo in questo senso quando negli anni ’90 riuscì miracolosamente ad entrare nei rigidi parametri di Maastricht. Bloomberg invece stima per i nostri derivati una perdita secca di 23,5 miliardi di euro. Non sarà che tutti i sacrifici che stiamo facendo servano anche a coprire questi buchi che sono pronti ad aprirsi in un prossimo futuro?
Capisco che sarebbe molto più confortante pensare che la crisi sia finita e che noi ne siamo fuori. Capisco che un primo ministro come Monti fa tutto un altro effetto rispetto a Berlusconi e che ci farebbe piacere dormire sonni tranquilli confidando nella sua competenze e nel suo carisma. Ma è proprio così facendo che succedono i peggiori disastri. In democrazia non ci si può permettere di dormire, ma si è obbligati a vigilare costantemente, perché, come scrisse Goya, «il sonno della ragione genera mostri». E non ci possiamo fidare completamente, purtroppo, nemmeno dei moniti dell’OCSE e dell’Unione Europea. Non perché sia gente cattiva, ma perché hanno le loro idee e potrebbero essere impreparati sulle dinamiche profonde della società italiana. E forse non sempre ne condividono gli obiettivi. “OCSE” sta per “Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico“.
Il Trattato di Lisbona, considerato la Costituzione dell’Europa, cioè un atto normativo che, da che mondo è mondo, dovrebbe servire a garantire diritti, all’art. 119 garantisce anche il “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. Che di per sé è una buona cosa, ma inedita in una carta costituzionale. Questi organismi, insomma, sono mossi dall’esigenza di tutelare l’economia europea: che è un obiettivo anche condivisibile, ma che talvolta potrebbe non coincidere con quello della nostra Costituzione, che invece fonda la Repubblica Italiana sul lavoro come fattore positivo di aggregazione sociale (non per salvare i fannulloni, come vuole sottintendere qualche “spiritoso”). E che soprattutto tutela i nostri diritti, prima di e come requisito fondamentale per lo sviluppo economico.
P.S. – A quelli a che hanno pronta la classica e noiosissima obiezione: «Sono tutti bravi a criticare, ma bisognerebbe proporre qualcosa», do appuntamento alla settimana prossima.
Andrea Giannini
Commento su “Mario Monti: il bilancio dopo quattro mesi di governo”