Politica, informazione e scienza economica: non posso più fidarmi di nessuno. Ma non credo in nessuna teoria complottista, è una fase di transizione. La società e i valori di riferimento sono dinamici
Più volte su questa rubrica mi sono ritrovato a spiegare che le cose non stanno come generalmente si crede: è capitato a proposito della moneta unica, del problema della stabilità politica, del valore di certe icone liberal dell’informazione, dell’operato del Presidente della Repubblica e dell’infallibile sistema tedesco. C’è un’idea, però, su cui più di altre mi sono concentrato: la pretesa che esista un sapere economico univoco, ben noto ai nostri “policy maker” e padroneggiato con sicurezza dai tecnici.
Da “non-economista” ho fatto varie incursioni (imposte dalla violenza della crisi) in questo campo impervio: mi hanno restituito un panorama molto più variegato e un dibattito molto più acceso di quello che il grande pubblico normalmente pensa. Ho provato così a richiamare l’attenzione sul fatto che molte voci importanti da noi erano sostanzialmente ignorate, che i termini del dibattito pubblico stavano mutando spacciando una tesi economica relativa per una verità politica assoluta e che, più in generale, esistono visioni alternative.
Su tutti questi punti sarebbe stato interessante avere un confronto nel merito; cosa che mi avrebbe permesso, tra l’altro, di correggere imprecisioni ed errori che sicuramente non sarò riuscito ad evitare: purtroppo però, salvo rarissimi casi, ciò non è stato possibile. La logica dominante è quella di giudicare un prodotto dalla scatola: pochi si abbassano a leggere l’etichetta, quasi nessuno apre la confezione. Così ci si riduce a discutere con quelli che: “io sono per rimanere nell’euro, perché il mondo va verso l’unificazione” (per inciso, un saluto affettuoso al caro amico autore di questa brillante riflessione).
Tuttavia rimane un’obiezione che, pur senza entrare nel merito, mantiene un certo peso: se davvero le cose non stanno come crede la maggior parte, come si spiega l’ignoranza nella quale sono tenute le persone?
In effetti è strano. Dopotutto siamo ancora in democrazia! Si possono ascoltare un sacco di voci e pareri diversi; e ciascuno di noi, se vuole, può farsi un’opinione sensata. In politica l’alta conflittualità e l’ambizione personale, se non altro, spingono i vari leader a ricercarsi una nicchia elettorale: è difficile, dunque, che forti interessi rimangano senza alcuna rappresentanza. Anche nel mondo dell’informazione c’è molta offerta: per cui, benché la maggior parte dei giornalisti scrivano quello che vogliono i loro editori, è difficile che non esista neppure un luogo dove si possano raccontare le cose come stanno. Infine la scienza fa volare gli aerei e fa girare le particelle a Ginevra: pertanto dobbiamo avere fiducia che, se la comunità scientifica è in sostanziale accordo su una cosa, quella cosa sia vera.
Certo, occasionalmente al pubblico potrà essere restituita qualche menzogna, soprattutto laddove s’incontrano ricchi tycoon come Berlusconi che monopolizzano le TV; ma tolto questo, come è possibile che il sistema politico, mediatico e scientifico in blocco e per un periodo prolungato ci propini informazioni false? A meno che non ci sia un complotto.
E così siamo arrivati al punto: nella testa di molti chi contesta radicalmente l’opinione corrente è in fondo un complottista, perché il sistema ha molti difetti – è vero – ma è plurale e democratico; per cui non ci possono essere verità palesi su cui la maggioranza è tenuta all’oscuro.
In realtà questa rassicurante immagine di “società del progresso” – in cui la collettività dispone di tutti i mezzi necessari e alla fine prenderemo sempre la decisione democraticamente più giusta… – è come minimo ingenua. Ho fatto cenno alla politica, all’informazione e alla scienza perché sono i veicoli che concorrono alla formazione del nostro sistema di valori (ci sarebbe anche la scuola e il mondo della cultura, ma per non complicare il discorso teniamoli da parte). Le nostre opinioni dipendono, dunque, non solo da noi, ma anche da quello che sentiamo dire ogni giorno da queste categorie di persone: politici, giornalisti e esperti di varie discipline. Ebbene: ci possiamo fidare?
Dei cosiddetti “rappresentanti del popolo” non occorre discutere molto: stiamo parlando di quello che nell’immaginario collettivo è il principale colpevole della crisi; per cui non mi occorre sprecare fiato per convincervi della scarsa affidabilità di questa classe politica. Un po’ più di fiducia si tende a riporre, invece, nel mondo dell’informazione: ma sono pochi quelli che mantengono ancora un certo credito; e non ci vorrà molto perché tutti si rendano conto che anche i vari Ballarò e Servizio Pubblico non stanno restituendo l’informazione che servirebbe in questo momento.
Arriviamo così alla scienza; e dal momento che il problema è la crisi economica, parliamo della scienza economica. Ecco, magari non ci fidiamo degli economisti e delle università di casa nostra, ma sicuramente abbiamo fiducia negli economisti internazionali: se questi esperti sono concordi su qualcosa, almeno di questa cosa non avrà senso dubitare… giusto? Purtroppo non è così facile.
Il Guardian ha raccolto la denuncia di un’associazione studentesca dell’Università di Manchester secondo cui le facoltà di economia del Regno Unito sono tuttora rigorosamente allineate sulle posizioni del pensiero neoclassico, lo stesso che prima non ha saputo prevedere la crisi e poi non ha saputo spiegarla. L’Economist, dal canto suo, ha puntato il dito sulla scarsa qualità della ricerca scientifica internazionale, lamentando sia scarse verifiche sui risultati degli studi pubblicati (ricordate il caso Reinhart e Rogoff?), sia un’esasperata competizione che non premia l’originalità, ma spinge al conformismo. Insomma: ce n’è abbastanza anche qui per non prendere tutto come oro colato.
Direte voi: ma se non possiamo fidarci di nessuno, che facciamo? Buttiamo a mare tutto il sistema? Assolutamente no. Il rivoluzionario, in fin dei conti, è anch’egli un nostalgico di quel mito della “società del progresso” cui accennavo poco sopra: avendo constatato che non si sta realizzando, ne attribuisce la colpa all’umanità corrotta, al profitto, al denaro, alla proprietà privata, eccetera. La realtà è un’altra, e in fin dei conti è anche più semplice: siamo in fase di transizione.
Le società e i loro valori di riferimento non permangono sempre identici, ma sono dinamici: mutano, si correggono e auspicabilmente si evolvono; e di solito questo avviene in corrispondenza di grandi crisi come quella che stiamo vivendo. Così la rappresentanza politica è chiamata a ridefinirsi, il mondo dell’informazione a ripensarsi e anche le teorie economiche conosceranno maggiore o minore fortuna, a seconda di quello che l’esperienza via via ci insegnerà.
Chiaramente questo processo è ancora all’inizio; tuttavia è proprio in fasi come queste, quando tutto si rimette in discussione, che le maggioranze tendono ad arrivare in ritardo sul cambiamento: perché è la parte più restia ad abbandonare quello in cui credeva prima.
Andrea Giannini
[illustrazione di Valentina Sciutti]