Il referendum non si farà mai, lo dice la Costituzione. Come detto più volte urge un dibattito serio su questo tema, mentre aumenta la schiera degli euroscettici e la non-proposta di Grillo diventa occasione per riflettere sul Movimento
Il referendum sull’euro riproposto da Grillo nel V-day di domenica sta diventando un tema rilevante per l’opinione pubblica. Ovviamente le analisi che circolano sono ancora drammaticamente campate in aria, senza alcun riferimento scientifico e ostaggio di impressioni soggettive. Basti citare a titolo di esempio l’editoriale del Prof. Sartori sul Corriere della Sera: un mix improbabile di generiche questioni europee (globalizzazione, immigrazione,
federalismo, lingua) e qualche problema italiano (disoccupazione, debito pubblico e pure “processi lenti”…) da cui viene dedotto che un’uscita “dall’Europa” (che poi sarebbe dall’euro) non è “raccomandabile”.
Tuttavia è positivo che l’argomento diventi materia di dibattito: e questo è senza dubbio il merito principale della proposta avanzata da Grillo. Che poi una proposta vera e propria non è. L’idea di una consultazione sull’euro, infatti, è prima di tutto una mossa politica. Osserviamola, dunque, sulla base di un criterio di opportunità.
Buttando sul piatto il tema di un referendum, piuttosto che la promessa elettorale di un’uscita, Grillo ottiene innanzitutto l’obiettivo di non spaccare la base. Non c’è bisogno di dividersi tra “euro-convinti” ed “euro-scettici”: l’istituto referendario è coerente con il principio ispiratore del M5S secondo cui il cittadino va coinvolto direttamente nel processo decisionale; e questo basta a sopire qualsiasi discussione interna.
Oltre a ciò abbiamo un secondo risultato: nel panorama politico Grillo si attesta su una posizione alternativa e progressista, ma tutto sommato sicura. Infatti, se le cose per l’euro andranno bene, lui potrà sempre dire di aver solo cercato la legittimazione di un voto democratico; e se le cose invece andranno male, passerà per quello che “lo aveva detto”.
Terzo punto rilevante: il referendum non si farà mai. Articolo 75 della Costituzione, comma 2: «Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, […] di autorizzazione a ratificare trattati internazionali». E’ dunque pressoché impossibile ipotizzare che la Corte Costituzionale sia indotta a privilegiare un orientamento elastico, tale da giudicare ammissibile un quesito referendario su un tema tanto delicato. Si potrebbe chiedere una deroga per un referendum consultivo (comunque non vincolante e puramente indicativo) sul tipo di quello del 1989: ma serve una modifica costituzionale, che Grillo non ha i voti per ottenere. Il che conferma l’impressione che – in fin dei conti – sia tutto un bluff, una mossa furbesca per gettare le responsabilità addosso agli altri partiti.
Morale: siamo alle solite. La strategia imposta da Grillo al movimento non cambia: raccattare voti dove si può. Massimo risultato, minimo sforzo. Non c’è alcun tentativo di imprimere una svolta programmatica basata sulla coerenza ideologica. Il movimento non ha un’anima, non ha una collocazione, non ha una vocazione: è solo una collezione di errori di altri da non ripetere, un manifesto contro il lobbismo e la cementificazione condito in salsa “Casaleggio” (la promessa di una rivoluzione partecipativa delle masse attraverso il web).
Si dirà che è pur qualcosa, di questi tempi. E può anche darsi che Grillo abbia ragione a fare quello che fa, in un momento in cui i partiti stanno sbagliando tutto. Forse davvero conviene stare sulla sponda ad aspettare il cadavere del nemico, allargando le braccia il più possibile per accogliere tutti i delusi, di qualsiasi estrazione e provenienza. Ma bisogna anche tenere in conto gli effetti collaterali.
Ho già espresso i miei dubbi sulla sostenibilità a lungo termine di un progetto politico che rinuncia ad un’identità per prendere più voti e che deve conciliare le molte anime interne. Aggiungo che limitarsi a porre un dibattito o stilare una serie di punti generici può essere anche una strategia per bypassare argomenti delicati: ma solo fintanto che si ha il monopolio sulla discussione. Quando gli altri diventano più progressisti di te, a quel punto c’è il rischio che ti battano al tuo stesso gioco: ed è quello che sta succedendo proprio sul tema della moneta unica.
Grillo è ancora, nell’immaginario collettivo, l’euro-scettico par excellence: ma nel frattempo anche gli altri partiti si stanno aggiornando. Fratelli d’Italia, con Alemanno e Crosetto, e la Lega Nord, con Salvini, si sono già assestati su posizioni seriamente euro-scettiche. Nell’Italia dei Valori c’è una discussione in atto. E presto potrebbe arrivare anche il pesce grosso.
Berlusconi non ha più niente da perdere: rispetto agli obblighi di governo ha le mani libere, con le cancellerie europee non ha mai avuto un gran rapporto e quei poteri forti che vogliono continuità guardano per ora ad Alfano. Probabilmente per rompere gli indugi e prendersela definitivamente con l’euro al Cavaliere manca solo il conforto dei sondaggi che, secondo il Fatto Quotidiano, pendono ancora per il 59% dalla parte di chi guarda all’ipotesi di un’uscita con timore. Ma lo scarto è esiguo, se si considera la cappa di disinformazione che unilateralmente ci pronostica catastrofi. E chi mantiene un forte potere mediatico non dovrebbe avere difficoltà a ristabilire un equilibrio informativo.
Se questo scenario si avverasse, dunque, Grillo potrebbe addirittura essere superato nella crociata contro la tecnocrazia europea da un fronte nazionale di destra (sul modello francese), col rischio di finire schiacciato tra due fuochi. A sinistra potrebbero rinfacciargli la fumosità delle sue critiche alla moneta unica; e a destra, anche se per motivi opposti, potrebbero fare lo stesso: troppo critico per una parte, troppo poco per l’altra.
In questa ridda di tatticismi politici, però, non dobbiamo tralasciare i fatti, che, in quanto tali, presenteranno il conto indipendentemente dal consenso che riscuotono. E qui il fatto è che – lo sappiamo già – l’euro effettivamente collasserà.
E’ vero che farsi promotori attivi di questo fallimento storico inevitabile significa comunque pagare un prezzo politico: uscire non sarà quel disastro che raccontano, tutt’altro; ma nel breve periodo è possibile che non sia neppure una passeggiata, e dunque le prime difficoltà potrebbero essere rinfacciate proprio a quelle forze politiche che erano al potere quando si è compiuto il processo. Tuttavia, dall’altra parte, stare a guardare sperando poi di capitalizzare un guadagno elettorale col giochino che “io l’avevo detto” potrebbe non funzionare ugualmente: perché, come abbiamo visto, in tanti lo stanno dicendo già adesso. E sempre di più saranno quelli che lo diranno in futuro.
Andrea Giannini