Fra i più acclamati della scena internazionale, il duo di autori che ha portato sul palco ferocia e violenza si racconta in una lunga intervista. Il teatro contemporaneo, la ricerca artistica e "Grimmless" al Teatro Archivolto
Venerdì 15 e sabato 16 il Teatro dell’Archivolto ospita lo spettacolo “Grimmless” (letteralmente senza Grimm, quindi senza fiabe) per la drammaturgia e la regia del duo composto da Stefano Ricci e Gianni Forte: attualmente tra gli autori più acclamati della scena internazionale, i loro spettacoli vengono messi in scena in tutta Europa e oltreoceano.
Il loro lavoro, estremamente vario, va dalla sceneggiatura di serie tv come i “Cesaroni” a quella della prima sit-com lgbt di produzione italiana, “Hot”, fino alla tanto prolifica attività teatrale, in cui scandagliano impietosi la realtà, portandone sul palco gli aspetti più crudi, senza indulgere ad eufemismo alcuno, al punto che i loro spettacoli sono spesso vietati ai minori di 18.
Quali sono i punti fondamentali di “Grimmless”, quali i messaggi che porta al pubblico?
«Grimmless è una ricognizione sullo stato comatoso in cui si trova immerso l’uomo in questo preciso momento storico. In sospensione incredula tra lo sfacelo di una società eticamente distrutta, di cui ricorda a stento i bagliori, e una rassicurante ustoria grande luce di confortevole annientamento verso la quale è attratto. Vaghiamo incerti in questa condizione apolide, provvisti solo del nostro trolley variopinto personale, fatto di tranquillizzanti oggetti che ci ristorano di un’appartenenza, e di fiabe dei Grimm, innestate sottopelle come microchips alla nascita. Flussi di obnubilata speranza i cui effetti tossici si sono manifestati durante l’età adulta. Non esistono messaggi o intenti pedagogici, nessuno può arrogarsi il diritto di salire in cattedra senza il rischio di sembrare patetico di fronte ad un cataclisma che non risparmia: esiste l’esposizione, il coraggio di mostrarsi senza casco di protezione tentando attraverso l’induzione un viaggio a ritroso verso una conoscenza sensibile del Sé. Recuperandone, nel migliore dei casi, anatomie di volo disperse».
Fiabe che si scontrano con la realtà: ma queste fiabe erano davvero poi così rosee? C’era il lieto fine, d’accordo, ma un lupo sbranava esseri umani, genitori anaffettivi abbandonavano i figli nella foresta, una strega imprigionava dei bambini per ingrassarli e mangiarseli, una matrigna cercava in tutti i modi di assassinare Biancaneve…. Ci ho sempre trovato più analogie che differenze coi casi di cronaca, a dire il vero.
«I riti di passaggio delle fiabe indicano al bambino la possibilità di crescita dettata dal cambiamento. Oggi, ormai, standardizzati nei gusti e nelle aspettative, avendo terrore del confronto e di un possibile arricchimento dettato dalle differenze con gli altri, restiamo isolati. Emarginati nel container di rinfrancanti certezze in cui ci si siamo avvoltolati. Scoperti i marker del contagio da fiaba, riconosciamo in noi quella passività da eroi intrappolati nel bosco, che disegnano mappe di sopravvivenza in attesa di un prodigio dall’esterno che venga a restituirci sollievo. Rantoliamo in un perenne sempiterno anacronistico Festival di Sanremo, unti di trucco e lustrini, con la testa sott’acqua per non sentire il suono degli spari. Un topo che canta, una madrina con la zucca, un principe azzurro su un destriero bianco, un gratta e vinci, qualunque prodigio esterno è meno impegnativo dell’attivazione di una analisi sui propri mezzi. Soli, siamo noi i veri casi di cronaca, bendati al mondo più di qualunque Bella Addormentata».
Spesso venite definiti enfants terribles. Non so se tale appellativo vi venga dato anche all’estero, ma la definizione di bambino applicata a persone di oltre trent’anni è una cosa tristemente tipica italiana, l’impressione è che questo approccio, nei confronti di qualcuno che fa qualcosa di nuovo e diverso, tenda in qualche modo a rassicurare il sistema (e il grande pubblico) usando parole mirate a “normalizzare” la sua attività riducendola alle bizze di un bambino terribile. Come dire: tranquilli, non prendeteli troppo sul serio, sono bambini, e la realtà fuori è diversa.
«Il disegno è molto preciso e si ricollega allo stato da walking dead – zombie ambulante in cui spurga il nostro Teatro nazionale. Se lo spettacolo dal vivo è considerato esclusivamente quell’agonia a cui assistiamo di continuo – fatta di storie apparentemente edificanti e attori che prestano la voce per ordire personaggi/armatura distanti anni luce dalle tensioni contemporanee – è altrettanto logico che chiunque provi a trascinare un respiro “altro”, un singhiozzo autentico che rifranga uno stato che ci appartiene tutti, venga fatto sedere alla mensa degli infanti. La dittatura della noia prova a sistemare nel tavolo più basso e accanto alla cucina quei parenti scomodi, i nonni malati o i bambini terribili, che sconvenientemente potrebbero provocare strappi nel tessuto di omologazione corrente. Non è la realtà che è diversa. Les enfants terribles compiono l’assassinio più feroce uccidendo la standardizzazione dell’Arte, colpiscono a morte un falso proponendo un Presente trasfigurato da una visione poetica, non minimalista come vorrebbero i media, che impianti un intrico di riflessioni: questo è punibile, se non altro con una stella da cucire sulla giubba del campo in cui si è stati veicolati. La Storia ci ha insegnato che le disposizioni a tavola si cambiano quando si è esausti di sentirsi raccontare la trita fandonia di plastica spacciata per verità».
Perché ritenete indispensabile portare in scena ferocia e violenza? È una reazione al teatro, come lo definite voi, postprandiale?
«Siamo davvero sicuri che venga portata da noi in scena la brutalità? In cosa viene identificata, quali i termini di paragone? Se porre sotto lo sguardo pubblico il peso dei giorni, sfrondato di qualunque rincuorante ninnolo natalizio, può essere scambiato per efferatezza, l’imbarbarimento involutivo subìto ha radici decisamente più profonde. Troppo semplicistico, e liquidatorio anch’esso, contrapporre una terapia elettroconvulsiva ad un paziente prostrato e in odore di abulia. Le pupille arrese devono riprendere a camminare: è necessaria una fisioterapia che riabiliti le proporzioni degli agenti fenomenologici che attraversano i giorni permessi valorizzando il ruolo della coscienza».
In un’intervista avete detto “in fondo le botte, la violenza, la sopraffazione non sono altro che forme d’amore”. Potete meglio spiegare quest’affermazione? In fondo le botte, la violenza, la sopraffazione fanno una donna morta ogni tre giorni solo in Italia, e la fanno perché vengono scambiate per amore al punto che chi subisce non si mette in salvo per tempo. Anche l’omicidio è una forma d’amore?
«L’amore è un sentimento, un impulso dei sensi che ci spinge verso una cosa, uomo/donna oggetto o animale che sia. Il modo di esercitare questa inclinazione, la sua grammatica, varia per individuo e mutevole rispetto alla direzione che quella corrente ha preso. Non è la percezione alla base che determina l’estinzione di un corpo ma le derive culturali che hanno metamorfizzato quello scoppio interiore masticandolo con la dentiera morale di un Paese obsoleto. L’omicidio, la violenza sulle donne o sugli animali diventa frustrazione di dominio che disegna una frana personale. Chi subisce, chi esercita sono solo cavie di un laboratorio dismesso dove l’eco di princìpi dissolti permette di assecondare chi, incapace di confrontarsi con la realtà, indossa quella passione ristrutturandone la detenzione con materiali scadenti come la mortificazione, l’insuccesso, la smania di possesso o di appartenenza, il sopruso».
Affermate l’annullamento della “quarta parete”. Se accadesse che l’interazione andasse un gradino oltre e qualcuno dal pubblico salisse deliberatamente in scena?
«Succede ripetutamente che venga sollecitata una partecipazione attiva della gente all’interno degli spettacoli presentati. Troppo spesso si dimentica che “il pubblico” non è un vago organismo nascosto all’ombra di una platea ma un grappolo di persone, ognuna delle quali compie un viaggio intimo all’interno dell’evento performativo. Non facciamo altro che suggerire segnali di vernice rossa sui tronchi per permettere agli altri di affrontare questa foresta, magari apparentemente minacciosa ma sorprendentemente attraente per le continue inattese prospettive di sguardo, pur garantendogli che attraverso quelle pennellate di simboli sulle cortecce ritroverà la strada per uscirne portandosi dietro la pienezza di un’avventura nuova dentro la propria cassa toracica».
Quali sono i temi della realtà che più vi interessano attualmente per i vostri spettacoli?
«La vita. E quell’enzima troppo spesso dimenticato che risponde al nome di Fantasia. Un catalizzatore per accelerare il battito contro il vischioso equilibrio da degradazione di poltiglia pressapochista in cui quotidianamente siamo costretti a stagnare».
Claudia Baghino