Al Teatro della Corte fino al 9 aprile, "Una casa di bambola" di Henrik Ibsen: uscire dall'infanzia per diventare persone e il dramma della libertà
Due “ perfetti sconosciuti”, ma lei non ci sta : sventrata la liturgia dell’apparenza. Su questo lavoro di Henrik Ibsen (Skien, Norvegia 1828-1906 ), uno dei più discussi del teatro contemporaneo, molto è stato scritto, fin dalle sue prime rappresentazioni (Copenaghen,1879 ), dove lo stesso autore si costrinse a cambiarne il finale, facendo rientrare in casa la protagonista Nora, dopo che ne era uscita: si piegò ai voleri della mentalità corrente che privilegiava la famiglia e il “bene” dei bambini alla sostanza del rapporto coniugale.
Chi esalta Nora come fulgido esempio di femminismo, chi la denigra perchè irrispettosa dell’unità familiare di facciata, per la quale varrebbe la pena di vestire per sempre il lindo abitino della sposa-bambola. Chi sostiene che in realtà è lei la furba manipolatrice di un marito rivolto all’esterno: c’è anche chi ha creduto di cogliere il fulcro del dramma nella libertà umana ed anche femminile di scegliere la propria linea di vita e di coppia conformemente alla propria vera indole, “paritaria” o sottomessa che sia. In effetti la questione femminile, da quella mela e quel serpente, è tuttora aperta e forse non ha una soluzione sociale confezionata, ma solo individuale (qualcuno disse che sono più diverse le donne tra di loro che gli uomini dalle donne…).
Già, ma qui si parla di coppia. Ibsen, con un implacabile sguardo di nordico osservatore e uno straordinario pensiero oltre gli argini sociali, non offre soluzioni compiacenti, si inchina solo alla libertà ed alla verità, pur avvertendo che così non si va a vincere, anzi, il cammino verso la propria crescita è sempre in salita e può portare alla solitudine. Ciò che l’autore ha voluto dire lo ha scritto nei propri appunti: «Nora… perde la fede nella sua correttezza morale e nella sua capacità di crescere i suoi figli». E ancora ci ricorda, qualora ce ne fosse bisogno, che uomo e donna sono due mondi completamente diversi ma giudicati dalle stesse leggi, fatte però a misura di uomo/ maschio. Dice Nora : «Io ho falsificato per un atto d’amore verso di te tu non lo hai capito: per te il mio comportamento è giusto o sbagliato a seconda che sostenga o meno la facciata del rispetto sociale. Un rapporto così fondato è un rapporto che non esiste».
Due coniugi che hanno giocato alle bambole, come i bambini, mentre Nora ora si rende conto, e lo proclama, di volere la cosa meravigliosa, un matrimonio fondato su un rapporto autentico, che cominci dalla conoscenza e dalla consapevolezza del proprio essere, al di là e al di fuori delle lusinghe e del consenso sociale. Dalla consapevolezza, dicevamo: infatti solo ora la protagonista si rende conto della gravità dell’illecito commesso, che mai aveva voluto rivelare al marito, e non si assolve, anzi, ricomincia dalla critica di sé stessa, vuole uscire dall’infanzia e dalla confusione e diventare una persona. Un lavoro reso imperdibile dalla bravura e dal coinvolgimento degli attori, sullo sfondo di una scena elegante e tradizionale, di costumi perfettamente allineati agli arredi, non privo di spunti ironici, che non spezzano, anzi incrementano la profonda riflessione che si propone al pubblico.
Elisa Prato
+ “Una casa di bambola” di Henrik Ibsen, al Teatro della Corte dal 4 al 9 aprile
Una produzione Teatro Franco Parenti e Teatro della Toscana, regia di Andrée Ruth Shammah, con Filippo Timi e Marina Rocco