Esiste una qualche correlazione tra recessione e incertezza politica? La risposta è no, nonostante non si faccia altro che ripetere il contrario. Bisognerebbe evitare semplicistiche connessioni tra i termini del vocabolario e i dati dell'economia
I due giorni immediatamente precedenti al voto di mercoledì, che ha confermato la fiducia al governo Letta, hanno visto una martellante campagna di stampa tesa ad inchiodare l’opinione pubblica su alcune precise parole chiave: il “responso dei mercati”, il solito “spread” ed infine il mantra della “stabilità”. Di mercato e spread abbiamo già parlato, e magari torneremo a parlarne in futuro; ma il rischio instabilità, invece, è in parte una novità di questi giorni, almeno per le altissime vette di disinformazione che questo spauracchio ha permesso di toccare. Stiamo parlando, è ovvio, solo di un sostantivo (o di un aggettivo, a seconda dei casi): eppure, visto che è stato usato per condizionare un intero paese, occorrerà discuterne come se si trattasse di una faccenda seria.
Cerchiamo quindi di fare un ragionamento sensato. Se l’instabilità fosse davvero quel male terribile che toglie il sonno ai nostri più autorevoli commentatori, se fosse davvero quella grave minaccia per i nostri partner europei e per tutto il continente, se davvero contasse per quasi un punto di crescita, come sostiene il Centro Studi di Confindustria, in una parola, se tutto il terrore che ci hanno gettato addosso alla sola idea di nuove elezioni fosse giustificato, allora dovremmo aspettarci, quantomeno, che esista una qualche correlazione tra recessione e incertezza politica. Il problema è che questa correlazione non si vede da nessuna parte.
Intendiamoci: nessuno nega che continui e repentini avvicendamenti di governo, prolungate difficoltà nel formare maggioranze, caos sociali, assassinii di uomini politici e guerre civili siano possibilmente da evitare. Il fatto però è che nei periodi precedenti elezioni democratiche (che siano anticipate o no) un po’ di incertezza è del tutto fisiologica. Si tratta, in fin dei conti, di un piccolo prezzo da pagare (che le dittature non esigono): e ci si può tranquillamente convivere senza compromettere il benessere economico generale. Se ancora non siete convinti, allora mettiamoci pure a fare due conti.
Veniamo da una stagione politica particolarmente stabile. La seconda repubblica, dal primo governo Berlusconi (1994) a oggi, comprende 6 legislature e 12 governi, per un totale di circa 233 mesi: dunque, in media, una legislatura ogni 38,8 mesi e un governo ogni 19,4. Si tratta di una performance molto buona, non accompagnata però da dati sulla crescita altrettanto incoraggianti: la variazione annuale sul PIL è in media inferiore al +1%.
Nella prima repubblica, al contrario, dal governo Pella del 1953 al governo Ciampi, terminato appunto nel 1994, in circa 369 mesi abbiamo avuto 10 legislature e 44 governi: cioè una legislatura ogni 36,9 mesi e, soprattutto, un governo diverso ogni 8,4 mesi…! Questo significa che i governi della prima repubblica sono durati, in media, meno della metà di quelli della seconda; eppure abbiamo assistito ad una crescita portentosa: più o meno +4% all’anno per trent’anni di fila!
In parte questo risultato è fisiologico: un paese che deve costruire tutto, se cresce, lo fa di solito a ritmi alti, per poi rallentare progressivamente. Ma fare questo tipo di considerazione significa già riportare la discussione su un percorso di maggiore buon senso, allontanando semplicistiche connessioni tra i termini del vocabolario e i dati dell’economia: altri sono i discorsi che dovremmo fare in tema di crescita. Resta il fatto che – si è dimostrato – essa non è incompatibile con scenari di incertezza politica (e giusto per capire di quale livello di incertezza si discute, ricordo che negli anni ’70 si tentavano colpi di Stato e c’erano le Brigate Rosse).
Dicono, tuttavia, che oggi è tutto più difficile: siamo in recessione e l’instabilità ci costerebbe molto più cara del normale. Faccio notare, allora, che le stime fatte da Confindustria, secondo cui un’eventuale caduta del governo Letta ci avrebbe consegnato una recessione del -1,8% nel 2013, sono esattamente identiche alle stime fatte dal Fondo Monetario Internazionale che pure scontano un clima di incertezza, ma che comunque sono precedenti alla decisione di Berlusconi di aprire la crisi; e sono superiori solo dello 0,1% a quelle fatte a suo tempo dallo stesso governo. Mi pare quindi che siano proprio i numeri portati da quelli che si stracciano le vesti a smentire eventuali catastrofi (catastrofi peggiori – s’intende – di quella in cui già siamo).
Dicono che c’è l’IVA e l’IMU. Vero, ma qualcosa avremmo pagato comunque. Non dimentichiamoci che la coperta è corta: rinviare l’IVA avrebbe significato trovare la copertura da qualche altra parte. Cioè, avremmo pagato in altro modo, ma avremmo pagato. Quei soldi sono un impegno verso Bruxelles che, nell’ottica di questo esecutivo, andava comunque onorato. Guardate perciò il lato positivo: abbiamo fatto contento Olli Rehn.
Dicono che ci sono un sacco di temi politici sul tavolo. Vero: peccato solo che il governo Letta non li affronti, ma li rimandi di continuo. Dunque non è solo una battuta dire che molti non avrebbero notato la differenza. Ricordo comunque che un governo dimissionario resta in carica per gli affari correnti: per cui saremmo stati comunque nelle condizioni di affrontare eventuali emergenze.
Dicono che le elezioni avrebbero ritardato gli investimenti esteri. Vero, ma è anche abbastanza normale. Succede sempre quando ci sono delle elezioni importanti, e non è mai morto nessuno. Ricordo poi che gli investimenti esteri non sono la panacea: anzi, se arrivano in eccesso possono causare degli squilibri significativi, come in effetti è successo proprio nella genesi dell’attuale crisi. Oppure pensiamo al caso Telecom: si tratta di un investimento straniero, ma se ne parla come di un problema; segno che i capitali esteri non sono sempre una buona cosa.
Dicono, infine, che tutta l’Europa è preoccupata per la nostra instabilità. Vero anche questo. Ma diciamoci la verità. Quello che interessa ai nostri partner europei e al mondo finanziario non è l’incertezza in sé: è il rischio che un nuovo governo smetta di seguire le politiche che piacciono a loro. Le quali sono ben note: l’austerità, ossia la stessa cosa che faceva Monti, la stessa cosa che gli Italiani avevano bocciato alle ultime elezioni, quella politica che fa gli interessi dei paesi creditori come la Germania e quel principio economico che, secondo il premio Nobel Paul Krugman, nel dibattito internazionale tra economisti non trova più sostenitori di rilievo.
Andrea Giannini