Il nostro Antonio Musarra ci guida tra le banchine del porto medievale di Genova, alla scoperta di un Salone Nautico di otto secoli fa. Modelli, soluzioni cantieristiche, tendenze e una riflessione: perchè nelle esposizioni di oggi manca una narrazione storica di questa tradizione millenaria?
E così anche quest’anno il Salone Nautico ha aperto i suoi battenti. Sono sincero: l’iniziativa m’interessa, ma fino a un certo punto; e ciò nonostante abbia una certa familiarità col mare (più con quello medievale che con quello odierno…). Tuttavia, devo notare una grave mancanza. Non voglio affatto sembrare presuntuoso, ma non posso, comunque, esimermi dal dire la mia: il Salone, in sé, manca d’una narrazione; nasce e muore nell’ambito ristretto del business. E ciò, nonostante tenti d’ammantarsi di motivi, per così dire, “emozionali” o si rivolga sempre più al semplice appassionato di subacquea, canottaggio, canoa, windsurf o, perché no, di nuoto. Tentativo d’accalappiare quanta più gente possibile? Probabile. In realtà, ciò che manca è, piuttosto, una cornice capace di far viaggiare innanzitutto con la fantasia, lungo rotte inesplorate, al seguito di quei Genovesi – crociati, mercanti e navigatori – dispersi in diversis mundi partibus, in un tempo in cui Genova era davvero Superba. Dove la grande tradizione marinara genovese? Dove i trascorsi marittimi d’una città un tempo signora del mare e padrona del Mediterraneo?
Credo che il Salone necessiti urgentemente d’una narrazione (prettamente storica, naturalmente); mi pare, cioè, che la grande storia marinara genovese debba necessariamente costituirne la cornice permanente. Quanto ciò richiamerebbe visitatori ulteriori, attratti, oltre che dallo scintillio dei ponti, dal fascino d’una tradizione secolare! Signori, questo non è affatto marketing (o, almeno, non lo è soltanto), e nemmeno mero campanilismo (chi parla non è affatto genovese): questo è puro e semplice rispetto per una tradizione straordinaria.
In realtà, basterebbe veramente poco. Cosa accadrebbe, ad esempio, se ci accingessimo a visitare un salone di ottocento anni fa? Immaginiamo di risalire il corso del Bisagno, di seguire l’antica via romana corrispondente grossomodo all’attuale via San Vincenzo, di raggiungere e oltrepassare la porta di Sant’Andrea – porta Soprana – e di immergerci finalmente nel cuore della vita cittadina, seguendo questa o quella ruga sino ai portici della Ripa maris. Volgiamo ora lo sguardo al mare. Di fronte a noi vedremmo imbarcazioni differenti: grandi naves mercantili e galee basse e veloci, e poi una pletora di legni minori, generalmente a remi, come il bucio, il golabio, il palischermo, il sandalo e la saettìa. Ovunque, alberi, vele, corde, marinai indaffarati, mercanti, ufficiali della dogana e via dicendo.
Tutto ciò doveva essere assai familiare ai Genovesi d’età medievale, abituati alla vista di grosse naves mercantili dalle forme tondeggianti. Dotate di due alberi a vela latina e d’uno o più ponti, possedevano un cassero di poppa e un rudimentale castello sopraelevato sulla prua, destinato a ospitare dei soldati. Nel tempo s’erano ingrandite, assumendo nomi caratterizzanti: da Pomella, Gazzella, Dolce s’era passati a Falcone a Regina, Panzone, Scurzuta e Berarda, per citarne solo alcune. Non mancano le descrizioni: una navis del 1246, utilizzata per la crociata di Luigi IX, e che per questo aveva a bordo una cinquantina di cavalli, era lunga trentasette metri e mezzo, larga dieci e alta dalla chiglia circa otto metri; l’albero prodiero giungeva a un’altezza di venticinque metri mentre quello centrale era poco più basso. Gli animali erano alloggiati nel primo ponte, sopra le sentine; soldati, scudieri e viveri, nel secondo ponte; nobili e cavalieri nel cosiddetto paradisus, situato a poppa, al di sotto del cassero.
Un veliero del genere, lento ma robusto, poteva ospitare sino a trecento persone, oltre a una cinquantina di marinai. Nulla a che vedere con la galea, lunga una quarantina di metri, larga circa tre e alta quasi due. Dalla prua dotata di sperone e dalla poppa alta e arcuata, dotata ai lati di due grandi remi che fungevano da timone, era inizialmente manovrata da due rematori per banco, per un totale di circa centoventi-centocinquanta uomini che agivano su un remo a testa. La sua agilità la rendeva uno strumento perfetto per la guerra o per la difesa delle naves da trasporto. Anch’essa, ad ogni modo, avrebbe conosciuto una certa evoluzione. Verso la fine del Duecento, in corrispondenza delle guerre contro Pisa e Venezia, fu adottato il sistema del terzarolo, il banco a tre vogatori, ciascuno dei quali agente su un remo, che permetteva d’imbarcare un numero maggiore di persone mantenendo inalterate potenza e velocità. Rispetto a Venezia, l’evoluzione della galea genovese avrebbe accusato, tuttavia, un lieve ritardo, legato al suo utilizzo prevalente nel Tirreno. La città lagunare sarebbe andata definendo, infatti, nuove tipologie costruttive, a metà strada tra la galea e la navis, adottate a Genova con maggiore lentezza: la tarida, già in uso nel Duecento, la galea grossa e la galea da mercato, meno capienti delle naves ma più veloci e adatte sia per il commercio che per la guerra. L’esigenza era quella d’aumentare il più possibile il volume di traffico, e dunque il tonnellaggio; al contempo di difendersi dalla guerra di corsa. La galea sottile, così definita per distinguerla dalla consorella, avrebbe continuato a essere utilizzata sino a tutto il Quattrocento, e oltre, anche se quasi esclusivamente in contesti bellici. Essa avrebbe accolto progressivamente elementi innovativi, come le bombarde, sistemate a prua, o il timone centrale, incastrato nella ruota di poppa, che lentamente sostituirà i due timoni laterali.
Il Trecento conobbe, invece, una decisa evoluzione del modello della navis, grazie all’introduzione della cocca, dotata d’un solo timone e d’un albero centrale, utilizzata per il trasporto di merci pesanti. L’utilizzo della vela quadra fu mutuato (ben più del timone centrale, già in uso nel Mediterraneo) dalle imbarcazioni nordiche e atlantiche, le quali necessitavano di sfruttare al meglio i venti costanti e gli alisei (se ne sarebbe accorto Cristoforo Colombo, il quale, partito da Palos nel 1492, avrebbe ordinato di cambiare le vele latine di una delle due caravelle, la Niña). Rispetto alle consorelle del Mare del Nord, la cocca mediterranea avrebbe subito, tuttavia, un processo d’ingigantimento. Entro la fine del secolo i grandi tonnellaggi sarebbero stati appannaggio esclusivo della marina genovese. Queste grandi naves imbarcavano un’ottantina di marinai, di cui circa la metà famuli, mozzi; nel numero erano compresi, inoltre, una quindicina di balestrieri. Si trattava d’una notevole riduzione della forza lavoro, funzionale al calo demografico successivo alla grande peste di metà secolo, ma fonte di diffusa disoccupazione.
Il Quattrocento avrebbe assistito a una nuova evoluzione della navis, dotata progressivamente d’ulteriore alberatura e pennoni: la mezzana, collocata a poppa, e il trinchetto, a prua. Imbarcazioni di questo tipo, le quali possedevano in genere tre alberi (quasi sempre a vele quadre), un castello di prua più alto del cassero e una tolda, un tavolato che proteggeva la coperta e l’equipaggio dai proiettili nemici, erano definite nei porti nord-europei col termine caracca. Nonostante l’apposizione d’ulteriori vele propulsive, si trattava d’imbarcazioni lente, problema al quale s’ovviava diminuendo le tappe (talvolta saltando anche la consueta sosta presso il porto genovese). La perdita d’una sola di queste imbarcazioni comportava danni enormi. Di qui la necessità di suddividerne la proprietà in parti o carature, secondo una pratica risalente quantomeno al XII secolo.
Già. Anche allora la nautica era essenzialmente business, e, dunque, rischio e commercio, rappresentando per molti un valido mezzo di sostentamento. Perché non riscoprire, dunque, per le prossime edizioni del Salone questa grande tradizione?
Antonio Musarra
Commento su “La visita ad un Salone di ottocento anni fa. Ecco lo speciale Nautico di Ianuenses”