Il solstizio d'inverno è il momento in cui il sole, raggiungendo il punto più basso nel cielo, sembra fermarsi per poi, lentamente, ricominciare a prevalere sul buio
Notte per innamorati quella appena trascorsa, il 21 dicembre, la più lunga da passare al chiaro di luna o la più gradita ai licantropi, vecchi mostri desueti che, sotto sembianze lupesche, amavano vagare alla luce del nostro astro d’argento; notte magica ricca di valenze simboliche; notte in cui la natura ha sospeso il suo respiro quasi soverchiata dalle tenebre che trionfano sulla luce; notte che è finita esattamente alle ore 5h30m28s nel solstizio (dal latino “solis statio”) d’inverno, momento in cui il sole, nel suo apparente cammino lungo l’eclittica, raggiungendo il punto più basso nel cielo, sembra fermarsi per poi, lentamente, ricominciare a prevalere sul buio.
Da oggi, infatti, le giornate incominceranno, gradualmente, ad allungarsi per traghettarci verso un’altra primavera. Questa data ha evocato, da sempre, misteri ed arcani rituali che si perdono tra le pietre megalitiche di Stonehenge o attorno alle incisioni rupestri di Bohuslan (Iran), ricorrenza citata da Eraclito di Efeso (560/480 a.C) così come da Omero (Odissea 133, 137) e da Virgilio (VI° libro dell’Eneide), festa glorificata dai Gallo-Celti (“Alban Arthuan”= rinascita del dio Sole), dai Germani (“Yulè”=la ruota dell’anno), dagli Scandinavi (“Jul”=ruota solare), dai Finnici (“July”=tempesta di neve), dai Russi (“Karatciun”=il giorno più corto) etc.
In questo connubio tra notte più lunga e giorno più breve, tutte le culture hanno celebrato liturgie che, con diverse modalità, avevano come matrice comune il tema della morte e della rinascita. In particolare, nella versione cristiana, questa data, spostata al 25 dicembre dal papa Giulio I (337 -352), trasfigura nella nascita di Cristo, il risorgere di un “sole” portatore di pace e giustizia. Condividono la natalità, in questo periodo, tante altre divinità legate a religioni molto distanti tra loro: il dio Horo e Osiride(antico Egitto), Freyr, figlio di Odino (Nord Europa), Buddha (Asia), Zaratustra (Azerbaigian), Krishna (India), Scing-Shin (Cina) per citare solo i più importanti. Reminiscenze pagane di queste antichi cerimoniali sono sopravvissute fino ai giorni nostri anche se le ripetiamo senza conoscerne l’origine.
Il baciarsi sotto il vischio o semplicemente regalarlo, ad esempio, implica augurare fortuna, fertilità e amore ma perché? Presso i Druidi questa pianta, simbolo del solstizio d’inverno, era ritenuta discendere direttamente dagli dei, in quanto figlia del fulmine, ed era reputata incarnazione di vita per le sue perlacee bacche assomiglianti allo sperma maschile.
Immortalità e rigenerazione, dunque, presente anche in un’antica leggenda in cui si narra della dea anglosassone Freya e del figlio Balder, ucciso dal fratello con un dardo di vischio. Le lacrime della disperata madre, al contatto con la freccia, fecero nascere, sullo sterile legno, delle piccole bacche che ridiedero vita allo sfortunato giovane. Per ringraziamento, da allora, la dea decise di baciare chiunque passasse sotto questa magica pianta. Un bacio che le ragazze innamorate sperano di ricevere sotto il complice sguardo dell’arbusto galeotto perché, come recita la tradizione, avranno la certezza di sposarsi entro l’anno.
Adriana Morando