Siamo stati tutti vittime di un gigantesco luogo comune, che si è trasformato in una sorta di ricatto morale implicito: “Essere contro l'Europa è essere contro la pace”. Ma chi davvero mette a repentaglio il contributo positivo dell'Unione Europea è solo chi si rifiuta di separarlo da quello negativo dell'euro
Ovviamente si sapeva che si sarebbe arrivati a questo punto; per cui c’è poco da stupirsi, se oggi in tema di Europa ci ritroviamo a commentare, anziché critiche e proposte, uno stucchevole spot elettorale.
È infatti in onda in questi giorni sulle reti RAI, realizzata dalla stessa azienda di Stato (non si capisce bene a che titolo), una vera e propria pubblicità commerciale in stile “Mulino Bianco”, la cui “trama” è la seguente: all’inizio, mentre scorrono scene di guerra, rovine e distruzione, vengono ricordati i morti di due guerre mondiali; poi, a un certo punto, come per magia, immagini in bianco e nero di firme e strette di mano; la musica cambia, la voce fuori campo ripercorre le epiche tappe dell’integrazione, manifestanti di varie nazionalità reggono cartelli a favore dell’Europa e infine si affaccia un tripudio di mamme e bambini sorridenti, anziani sicuri, abbracci affettuosi, sicurezza, pace e prosperità. Non manca la morale della favola: Bruxelles a volte ci delude, ma non dobbiamo dimenticarci a cosa ci serve l’Unione Europea.
Purtroppo, nonostante il motto riportato nella schermata finale sia “per informare, non influenzare”, è evidente che la realtà sta esattamente all’opposto. Excusatio non petita, accusatio manifesta: proprio perché è evidente che si tratta di propaganda di bassa lega, devono scrivere che è “informazione”, altrimenti non se ne sarebbe accorto nessuno.
L’argomento sostenuto è sempre lo stesso e l’abbiamo già smontato: l’Europa si è autoproclamata “antidoto contro la guerra”, ma ascrivere il merito degli ultimi settant’anni di pace al processo di integrazione non solo comporta avallare un falso storico: più banalmente comporta anche credere a un’idea davvero stupida. E spiace constatare che il nostro Presidente della Repubblica non sia più in grado di ravvedersi da questo clamoroso abbaglio, per cui in generale si continua a confondere “euro”, “Unione Europea” ed “Europa”, che sono tre concetti diversi; e si pretende di definire le dinamiche globali a partire da una banale questione terminologica (semplicemente perché “unirsi” è un termine con valenza positiva e “dividersi” ha valenza negativa).
La costanza di queste bugie mi costringe a ripetermi. Nessuno nega che i padri fondatori avessero intenzioni nobili; ma resta il fatto che è difficile sostenere che i loro sforzi nel dopoguerra abbiano pesato di più dell’equilibrio nucleare tra USA e URSS. La realtà è che la Germania era occupata militarmente e divisa in due blocchi; la Francia, l’Italia e la Gran Bretagna erano subordinate agli Stati Uniti; l’est Europa era in mano sovietica: impossibile che potesse muoversi anche un solo carrarmatino del Risiko senza che le due superpotenze lo volessero. Allo stesso modo è del tutto priva di fondamento l’idea che due guerre mondiali siano da attribuirsi essenzialmente a non meglio precisati “egoismi nazionali”, la cui logica sarebbe insita anche nel principio stesso del ripristino di valute nazionali (evidentemente per via dell’aggettivo comune). Questa propaganda fatta di “iper-inflazione”, “carriole” da Repubblica di Weimer e “nazifascismo” è però chiaramente smentita da Giorgio Gattei, docente di Storia del Pensiero Economico a Bologna, che scrive:
“La Germania non si è mai ripresa dallo shock della Grande Inflazione degli anni 1919-1923, a cui si addebita la responsabilità della salita al potere di Hitler. Così ragionando essa però rimuove il fatto inequivocabile che da quella iperinflazione si è usciti con la stabilizzazione del marco della socialdemocratica Repubblica di Weimar (1923-1932) e che la catastrofe elettorale del 1933 è stata piuttosto provocata dalla sciagurata politica di austerità deflattiva adottata dal governo Brüning (è ricorrenza storica che le dittature escano politicamente dalle deflazioni monetarie, mentre l’inflazione sposta l’elettorato a sinistra!)”.
Questo passo ha il merito di riportare la discussione su binari di minimo buon senso. I popoli non si fanno la guerra solo perché non condividono lo stesso Stato: altrimenti non esisterebbero le guerre civili. Al contrario, si può restare in pace anche senza unirsi dentro entità più grandi, come dimostra il caso della Svizzera, che è neutrale dal 1515 (e difatti si è ben guardata dall’adottare l’euro o dall’entrare nell’Unione Europea).
Inoltre si finge di non vedere che all’inizio delle due guerre mondiali c’erano sì fermenti nazionalisti, ma a dettare l’invasione militare come strumento di politica estera furono piuttosto le ragioni dall’espansionismo: Austria-Ungheria, Germania e Giappone condividevano infatti una visione politica tardo-imperialista, per la quale la forza di uno Stato è data dalla vastità dei territori controllati, che a loro volta si traducono in uomini in armi e campi da coltivare (il “Lebensraum” hitleriano). Oggi questo retaggio non esiste più: a parte – s’intende – tra i sostenitori del «più Europa», per i quali – guarda un po’ – dobbiamo diventare più grandi proprio per rivaleggiare con la Cina (come ci suggerisce quest’altro bello spot dai toni molto “pacifici”). Tra le persone normali, tuttavia, nessuno si azzarderebbe a sostenere che nel mondo di oggi per scambiarsi merci e servizi si debba essere per forza “grandi”; né si può sostenere che senza l’Unione Europea a qualcuno verrebbe in mente di invadere i partner commerciali per diventare più ricco!
In realtà, come suggerisce il passo di Gattai, le guerre non dipendono dal fatto che ci sono i nazionalisti cattivoni: più verosimilmente guerre e nazionalismi aggressivi dipendono dalle idee stupide. E se c’è un’idea stupida, anzi addirittura «orribile» secondo il premio nobel Amartya Sen, questa idea è proprio l’euro.
La “propaganda” a favore dell’euro, perciò, non può che essere definita tale anche se viene da insigni economisti. Il problema è che – al netto dei mistificatori di professione – siamo stati tutti vittime di questo gigantesco luogo comune, che si è trasformato in una sorta di ricatto morale implicito. “Essere contro l’Europa è essere contro la pace”, perché è tecnicamente innegabile che, se tutti accettassero di vivere sotto un unico stato, non ci sarebbero più stati separati che si fanno la guerra tra loro (peccato solo che frustare la gente a colpi di deflazioni salariali non sia esattamente la migliore idea per entusiasmarla).
È tale, ad esempio, la posizione di un critico dell’euro come Paul Krugman, che in questo articolo si chiede perché non lasciare che la moneta unica si rompa: “La risposta, credo, è soprattutto politica. Non del tutto così – una rottura dell’euro sarebbe estremamente dirompente, con costi puntualmente alti di “transizione”. Inoltre, il costo duraturo di una rottura dell’euro equivarrebbe a una sconfitta enorme per il progetto europeo più ampio che ho descritto all’inizio di questo discorso – un progetto che ha reso al mondo un gran bene, e che nessuno che non sia cittadino del mondo vorrebbe vedere fallire”.
Dunque, a parte gli alti costi di transizione (che però con gli anni stanno diventando irrisori, a fronte della devastazione che stiamo subendo, e che comunque avrebbero evidentemente una fine, una volta compiuta la transizione stessa), è chiaro che per Krugman il problema è politico: e con questo anch’egli mostra di cadere preda del mito “Unione Europea = bene”, benché nessuno riesca a esemplificare in concreto come questi benefici abbiano superato le privazioni economiche patite.
C’è poi un ricatto ancora più grosso: “chi è contro l’euro non vuole che l’Europa funzioni”. Con questo argomento implicito si accolgono con freddezza e fastidio tutti i critici, che ovviamente, non potendo sostenere di prevedere il futuro, sono costretti a dare una chance al progetto. Curiosamente, però, se parliamo dell’Italia questa indulgenza non vale: cioè, bisogna dire che l’Europa funzionerà anche se non ha mai funzionato, mentre bisogna dire che l’Italia non funzionerà, anche se ha funzionato.
È l’argomento usato, tra gli altri, da Luigi Zingales: “Avere la flessibilità di usare il cambio solo in alcuni momenti, è un grande vantaggio; è un grande vantaggio che noi abbiamo dato via, ma abbiamo dato via a ragione perché l’abbiamo usato male, e non avevamo la credibilità di usarlo solo bene”.
Insomma: siamo inferiori e l’euro ce lo meritiamo, anche se è la cosa sbagliata. Il fatto che questa idea sia insultante per gli italiani, al punto di non ammettere nemmeno la più piccola possibilità di un ravvedimento, non fa sorgere in nessuno il sospetto che in realtà gli Zingales non vogliano che l’Italia abbia successo e lavorino perché diventi preda di potentati economici stranieri: cosa che io non credo – sia chiaro –, ma che è esattamente quello che si fa con chi critica la moneta unica quando lo si definisce “nazionalista”. Alla prova dei fatti, dunque, chi davvero mette a repentaglio il contributo positivo dell’Unione Europea è solo chi si rifiuta di separarlo da quello negativo dell’euro.
Andrea Giannini
Egregio Signor Carulli, mi sfugge il nesso fra il suo commento e l’articolo in questione.
Se oggi tu non avessi più una casa, una famiglia, la tua terra a causa di una guerra, vorrei vedere quale sarebbe il tuo “commento” sulla nostra Europa.