Il monastero brigidino di Genova, che sorgeva dove ora si nasconde piazza dei Truogoli di Santa Brigida, aveva una caratteristica rivoluzionaria per i tempi: era pensato per una “coabitazione”, seppur rigorosamente separata, tra frati e suore...
“Superba ardeva di lumi…Genova… dal suo arco marmoreo di palazzi” (Giosuè Carducci), edifici, come dice l’ode citata, eburnei, imponenti, che incombono granitici su quell’antica “via Nuova” (via Balbi) che i nobili Durazzo e Balbi, insediatisi nel quartiere nel XVII secolo, vollero a monte dell’angusta via di Pré, per dotare le loro ricche dimore di un agevole sbocco viario verso il ponente.
Tra queste solenni residenze s’incuneano angusti viottoli che scendono ripidi e tortuosi verso il porto o s’inerpicano, in salita, verso il monte tra un affastellarsi di case sovrapposte. L’attuale aspetto è il risultato di quel rimaneggiamento edilizio ottocentesco che intrappolò, nei loro intricati meandri, piccole creuze nella cui toponomastica riecheggia il glorioso passato della Repubblica Marinara e dei suoi domini: via di Famagosta, di Montegalletto, salita di Balaclava, di Montebello, tutte nate da un unico sentiero: salita Santa Brigida.
Lasciata, dunque, l’ampia piazza del Vastato (l’attuale piazza della Nunziata) e procedendo in direzione della Stazione Principe, percorrendo quella “Strada delli Signori Balbi”, ricchi banchieri genovesi, si giunge in quel tratto di via dove un dimesso “stendardo”, che ben poco ha di storico, ci annuncia di essere giunti nel luogo dove, il 24 marzo 1403, l’arcivescovo di Genova, Pileo de Marinis, pose la prima pietra di quel monastero che dalla santa prese il nome. Sulla destra, un sottopasso, seguito da una scalinata, da accesso ad una piccola piazzetta dove il tempo sembra essersi fermato: le facciate, completamente rinnovate, di tipiche case medievali, che sembrano gioire dei loro nuovi vestiti gialli e rossi, fanno da cornice ai vecchi truogoli (gli antichi lavatoi di Santa Brigida), approvvigionati , da una fonte detta Bocca di Bove, un angolo di silenzio dove tendendo l’orecchio pare ancora di percepire il garrulo chiacchiericcio delle allegre lavandaie.
Sulla vetusta tettoia, brillante di restauro, si specchia una preziosa edicola, unico ornamento di spicco nell’essenzialità della piazza. A sinistra, un solido arco, antico ingresso del monastero, continua in un dedalo di vicoli, ricchi di storia, che s’inerpicano in alto, scalando la collina, fino in Corso Dogali.
Sono questi i luoghi dove giunsero, provenienti dalle turbolente alture di Sarzano, le monachelle agostiniane con l’intento di costruire una chiesa e di dedicarla alla santa, Brigida, di cui seguivano la regola (la regola dell’Ordine del Santissimo Salvatore di Santa Brigida è un’integrazione, in 27 capitoni, di quella di Sant’Agostino).
Appartenente alla famiglia reale svedese, Brigida (1303-1373), sposa giovanissima del nobile Ulf Gudmarsson e madre di 8 figli, alla morte del marito si spogliò dei suoi beni per darsi a una vita di fede. In uno dei tanti pellegrinaggi, fatto a piedi o a dorso di un mulo, giunse a Genova dove trovò ospitalità, per qualche mese, nell’abbazia di San Gerolamo di Quarto, in attesa di imbarcarsi per Roma, ospitalità che certo non ricambiò se, come narra la leggenda, dall’alto del Peralto, volgendo gli occhi verso la città ne abbia vaticinato la completa rovina.
Il monastero brigidino di Genova aveva una caratteristica peculiare: era pensato per una “coabitazione”, seppur rigorosamente separata, tra frati e suore, entrambi di clausura, il che impose la costruzione di passaggi labirintici che ci danno conto delle future creuze. Oltre alla chiesa vi erano stanze, dormitori, mense, biblioteche per i religiosi, laboratori ed officine per gli operai, nonché ampi spazi esterni come campi ed orti: una costruzione enorme, che occupavano quasi l’intero poggio. Era inevitabile che una così prossima contiguità fosse fonte di tentazioni e che, nel tempo, desse adito a malevoli sospetti, cui cercò di porre rimedio, nel 1600, Papa Clemente VIII, il cui intervento, atto a porre fine all’ “onta” rappresentata dal convento “misto”, si concretizzò, nel 1606, con la dipartita dei poveri fraticelli. Rimaste sole in tanto spazio, le suore misero in vendita i loro terreni, la cui cessione permise, due secoli dopo, la costruzione di via Balbi.
Ma i guai non erano finiti: alla fine del settecento, in linea con le idee giacobine che giungevano dalla vicina Francia, molti ordini religiosi furono soppressi e molti possedimenti confiscati tra cui quello conventuale di santa Brigida: tutti gli edifici furono riadattati ad uso abitativo, stessa sorte che toccò alla chiesa, demolita per fare posto a tre palazzotti conosciuti come “palazzi Dufour”, dal nome del casato del compratore. Prima di questa triste fine subì la “vergogna” di essere adibita, prima, ad officina di un fabbro e, successivamente, trasformata in filanda. Dell’antica abbazia rimane solo l’arco d’ingresso, una colonna, una finestra, un muro, un residuo di affresco sotto un’arcata, tracce nascoste che potete trovare, dopo un’attenta ricerca, tra le ombre dell’intreccio dei vicoli.
Adriana Morando