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La strategia anti-crisi dell’Europa: attenzione ai luoghi comuni

Il compito di chi fa divulgazione è quello di aiutare le persone a valutare bene quale sia il modo migliore per fare il proprio interesse. Siamo sicuri che la strategia europea sia corretta e che l'uscita dall'euro-zona significherebbe apocalisse?


10 Gennaio 2013Rubriche > "Polis" Critica Politica

Sul Fatto Quotidiano di domenica scorsa è apparso un articoletto che sarà sfuggito ai più, ma che è piuttosto istruttivo, perché esemplifica in maniera cristallina quale tipo di luoghi comuni, economici e politici, possano facilmente condurre una persona istruita e perbene a vedere in Monti l’unica opzione credibile e l’unica possibilità di salvezza per l’Italia. L’autore è Bruno Tinti, ex-magistrato esperto in reati tributari: e proprio il profilo intellettuale e l’integrità della persona sono la migliore garanzia che ci troviamo di fronte a una libera opinione personale, non dettata cioè da interessi di parte o da opportunismo politico; il che agevola il dibattito e quindi anche la valutazione delle critiche sulla base del loro contenuto.

Il mio interesse – è bene sottolinearlo – non è quello di convincere il lettore che sia meglio non votare Monti: non solo perché, verosimilmente, l’influenza che esercito su chi riesce a leggere i miei interventi è scarsissima, ma anche perché è giusto che al momento di votare ciascuno di noi prenda in considerazione prima di tutto il suo interesse, e solo in seguito il giudizio degli altri. L’interesse individuale, infatti, è l’essenza della democrazia e non andrebbe mai demonizzato. Il compito di chi fa divulgazione, o di chi esprime opinioni, è semplicemente quello di aiutare le persone a valutare bene quale sia il modo migliore per fare il proprio interesse.

Nella fattispecie, ad esempio, sono convinto che non sia vera, e pertanto sia contro l’interesse della gente ad avere un quadro chiaro della situazione, l’idea secondo cui il governo Monti è stato, e solo potrà essere nel futuro, la medicina, per quanto amara, di cui ha bisogno l’Italia. L’argomentazione del discorso di Tinti, che mira invece a convincere i suoi lettori proprio di questo, è in parte originale, perché ingloba tesi espresse non dai sostenitori delle politiche che vengono dall’UE, ma dai suoi critici. L’ex-magistrato muove infatti dalla costatazione che la riduzione del debito, imposta all’Italia con il fiscal compact, ci vincola all’ambiziosissimo obiettivo di portare in 20 anni il rapporto con il PIL al 60% (corrispondente ai vecchi parametri di Maastricht): il che significa ridurre della metà il già altissimo debito attuale. L’impegno è talmente gravoso che – conclude giustamente, dati alla mano, l’autore dell’articolo – da soli non ce la faremo mai. Infatti, il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo, come sa chiunque ha studiato le frazioni alla scuola media, può diminuire soltanto se diminuisce il numeratore (il debito pubblico) oppure se aumenta il numeratore (il PIL).

La prima opzione è quella gradita all’UE: ridurre il debito, tagliando le uscite e aumentando le tasse. In questo modo però diventa impossibile percorrere parallelamente la seconda opzione, cioè tornare a crescere, perché la stretta fiscale e la contrazione degli stimoli pubblici – riconosce l’ex-magistrato – deprimono l’economia. Sarebbe inutile anche lasciare immutata la spesa e puntare tutto sulla crescita, perché dovrebbe essere talmente sostenuta e prolungata nel tempo da paragonarsi a un livello che abbiamo conosciuto solo tra gli anni ’50 e ’60.

Quindi, conclude Tinti, restano solo due possibilità. La prima è uscire dall’euro. A quel punto però: «Si nazionalizzeranno le banche e le assicurazioni. Falliranno circa metà delle imprese. La disoccupazione andrà alle stelle. Si andrà ai razionamenti perché è difficile, senza euro, importare materie prime e l’Italia, diversamente dall’Argentina, non ha risorse né agricole, né minerarie da scambiare. La sola merce italiana sono le braccia. Ma il regime salariale le rende invendibili. Uno scenario da incubo».

Dunque non resta che convincere l’Europa a farsi carico, in un modo o nell’altro, del nostro debito. E chi meglio di Monti per questo? Anche se non è detto che l’uomo della Bocconi riesca a muoversi in modo libero all’interno della sua stessa coalizione, resta il miglior candidato sulla piazza, perché tutti gli altri partiti, chi più e chi meno, hanno al loro interno correnti populiste che non avrebbero credibilità presso i nostri partner europei. Il discorso sembrerebbe filare: cosa ci può essere di sbagliato? In realtà molto.

Innanzitutto, anche prendendo per buona l’analisi economica, le conclusioni mancano di realismo politico. Monti ha pochissime chance di ottenere la maggioranza: il suo intento è piuttosto ridimensionare il PD, dividendolo da SEL, per poi concludere un’alleanza vincolata al rispetto degli impegni europei (una strategia, come ho già scritto, che rischia di ritorcerglisi contro). C’è poi un’obiezione molto più semplice: se siamo tutti d’accordo che il target di riduzione del debito è irraggiungibile, perché l’Europa ce lo impone? Questa semplice considerazione mina alla radice il ragionamento di Tinti, perché mostra immediatamente che è del tutto insensato non solo, da parte nostra, accettare di giocare una partita persa in partenza, ma soprattutto, da parte dei nostri partner europei, dettare strategie controproducenti.

Pensateci bene: al netto di tutti i nostri errori passati, per grandi che essi siano, ha senso ora seguire chi ci propone soluzioni che – lo dice lo stesso Tinti – non possono risolvere nulla? Sarebbe più ragionevole per tutti cercare subito una linea condivisa che porti da qualche parte, anziché impiccare la nostra economia a richieste assurde solo per dimostrare a Bruxelles le nostre buone intenzioni. Sembra l’episodio della Bibbia in cui Dio chiede ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco, salvo poi fermare il coltello prima che sferri il colpo una volta accertata la fedeltà del patriarca. Oppure vengono in mente quei reality americani dove persone sproporzionatamente obese cercano di rimettersi in forma (e di salvarsi la vita) sottoponendosi all’allenamento di un personal trainer muscoloso, bello, biondo e con gli occhi azzurri. Ecco: se fossimo noi i colpevoli ed imperdonabili ciccioni, accetteremmo per questo di perseguire l’obiettivo di perdere 150 kg in tre mesi? Ovviamente no, perché ci ucciderebbe: e anzi dubiteremo seriamente delle buone intenzioni di chi ce lo proponesse. Eppure è proprio quello che ci chiede la Germania, il nostro aitante preparatore atletico; che poi è la stessa persona, sempre per restare nella metafora, che fino al giorno prima ci vendeva gli hamburger.

Se passiamo ad un livello di analisi un po’ più serio, le incongruenze non diminuiscono: anzi aumentano. Ad esempio, benché nessuno dubiti che, in un contesto del tutto astratto, sia preferibile avere un basso debito pubblico, ciononostante non esiste una teoria economica universalmente riconosciuta che metta in relazione una precisa soglia di debito in proporzione al PIL con l’insostenibilità dei conti pubblici: ma questo significa, allora, che un target che fissi un rapporto massimo del 60% non è garanzia di un bel nulla, come dimostra il caso dell’Irlanda, che aveva un rapporto del 25% ma è andata in crisi lo stesso (questo perché, ovviamente, non è l’entità di un debito che conta, ma la possibilità di ripagarlo).

Inoltre, come ho già scritto, i problemi di debito sono conseguenza della crisi, e non origine. Infine la teoria delle aree valutarie ottimali, che nel 1999 valse un nobel all’economista canadese Robert Mundell, sui parametri del debito non dice pressoché nulla: per cui ne consegue che l’importanza che detti parametri rivestono per l’euro-zona si deve unicamente a considerazioni politiche e interessi specifici (che un lungo discorso ricondurrebbe agli hamburger, anzi ai würstel, di cui sopra). Insomma, da qualunque parte si consideri la questione, tutto ci dice che la strategia europea anti-crisi è sbagliata e per questo andrebbe ripensata con una certa urgenza.

Si dirà: ma rimane il problema che contiamo poco; e se gli altri non ci ascoltano, che facciamo? Lasciamo l’euro e ci consegniamo così a “terrore, miseria, distruzione e morte”? E già: dimenticavo che se usciamo dall’euro, verrà come minimo l’apocalisse. O no? Ecco, magari a qualche lettore sarà pure passata per la testa l’idea che questo scenario di devastazione e lacrime, che ci viene dipinto quotidianamente dai più importanti organi di stampa e dalle più rispettabili forze politiche, forse sia un tantino esagerato. Se vi fossero sfuggite le vette raggiunte dalla prosa di Bruno Tinti, ve le ripeto: «Si andrà ai razionamenti perché è difficile, senza euro, importare materie prime». Ribadisco: «Si andrà ai razionamenti», come nell’ultimo conflitto mondiale. A sentire Tinti, insomma, viene quasi da dubitare che prima dell’euro ci fosse in Italia una qualsiasi forma di economia diversa dal baratto; e si osserva stupiti come facciano a sopravvivere paesi come Inghilterra, Turchia, Canada, Giappone e Corea del Sud che sono fuori dall’euro-zona. Spero che a fronte di tutto questo il lettore si faccia venire quanto meno il sano dubbio che chi la spara così grossa non può avere una corretta percezione dei termini della questione. Magari qualcheduno avrà anche piacere di sentire cosa dicono gli economisti veri: cosa che Tinti non è. A onor del vero, nemmeno io sono un economista: però, avendo una formazione filosofica, quantomeno mi accontento di fare il mio lavoro: che è appunto quello di farvi venire il dubbio.

Detto questo, se volete sapere se le paure di cui i media ci nutrono sono fondate o meno, dimenticate Grillo o Berlusconi: andate a sentire tra gli economisti cosa dice chi queste paure le ridicolizza, e cosa afferma addirittura chi ha vinto un premio nobel. Poi vi potrete fare la vostra opinione. Perché è questo il vero modo per uscire dalla crisi, senza aspettare il salvatore della patria. Se no, che ne fate della democrazia?

 

Andrea Giannini


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