Corriere della Sera vs Beppe Grillo. Da una parte luoghi comuni e ricostruzioni storiche imprecise, dall'altra una strategia di uscita dall'euro. Ciò non significa che Grillo abbia la terapia per salvare l'Italia, ma almeno la diagnosi...
La settimana scorsa ho scritto che i pochi mesi trascorsi non devono impedirci di tenere il fiato sul collo del governo. Sono vent’anni che ci teniamo questa classe politica con la scusa che “non bisogna fare del disfattismo” e che “lasciamoli lavorare prima di giudicare”: mi pare, a questo punto, che di tempo per lavorare ne abbiano avuto anche fin troppo. E quindi non si sente davvero l’esigenza di stare ad aspettare gli ulteriori disastri di un premier che, in quanto storico dirigente PD, nipote impenitente di un grand commis PDL e figlio putativo del candidato premier di centro, è la quintessenza di tutto quello che abbiamo già visto e patito.
Al di là delle credenziali, tuttavia, quello che conta davvero è la strada che viene imboccata: e se è quella sbagliata, bisogna invertire subito la marcia, non aspettare che ci conduca a danni già largamente prevedibili. Anche perché non sempre al fondo c’è un errore di valutazione. Più spesso scelte apparentemente “sbagliate” sono in realtà deliberatamente perseguite attraverso una strategia che mira a metterci di fronte al fatto compiuto: cioè, all’inizio si invoca l’urgenza, chiedendo di aspettare i risultati prima di giudicare; poi quando i risultati si vedono, e sono disastrosi: “Oops, ci siamo sbagliati: ma ormai non si può più tornare indietro, bisogna andare avanti!”. E’ un ottimo trucchetto, già ampiamente sperimentato in passato, per far digerire riforme che altrimenti riuscirebbero indigeste alla maggior parte degli elettori: una ragione in più, dunque, per alzare il livello di attenzione e esercitare forme di controllo preventivo sulle manovre che si agitano, anche in questi mesi estivi, all’interno dei palazzi romani.
Questa settimana un dibattito che di solito tende a languire sullo sfondo si è arricchito di spunti nuovi: segno che l’inconcludenza delle strategie fin qui adottate traspare ormai in tutta la sua evidenza. Due giorni fa sul Corriere della Sera il direttore Ferruccio De Bortoli ha commentato la situazione attuale in occasione dei due anni trascorsi dall’arrivo dalla BCE della famosa lettera, scrivendo: «La strada imboccata è giusta, ci vorrebbe un po’ di coraggio nel tagliare le spese per abbassare le tasse». Ecco: se lo scrive De Bortoli, che non ne ha mai azzeccata una in vita sua, possiamo stare sicuri che è vero l’esatto contrario!
Battute a parte, il direttore si avventura in una ricostruzione storica degli ultimi due anni a dir poco imprecisa, che sintetizza brillantemente i soliti luoghi comuni: “a causa del debito pubblico eravamo a un passo dal precipizio, ma Monti ci ha salvato”. Come abbiamo imparato insieme a poco a poco, però, la realtà è ben diversa: il nostro debito pubblico ha subito più che in altri paesi gli effetti della crisi del sistema finanziario globale privato perché a) non abbiamo una Banca Centrale e b) la nostra economia resta asfittica per gli squilibri generati dall’euro; lo spread è calato sensibilmente solo dopo che Draghi ha annunciato acquisti illimitati di titoli di Stato da parte della BCE, e senza che per altro ciò costituisca neppure lontanamente la soluzione definitiva ai nostri problemi.
Per contestare nel merito le gravi lacune di questo esecutivo, e di chi lo sostiene, bisogna passare per forza da qui: dal fatto che diagnosi sbagliate conducono a cure sbagliate. Se il problema è l’alto debito pubblico, allora Monti ci ha salvato con la sua credibilità e con ricette giustamente tese, per l’appunto, a «tagliare le spese per abbassare le tasse». E dunque avanti così anche con Letta. Se però il problema non è l’alto debito pubblico, allora tagliare le spese (leggi: austerità) conduce solo a deprimere ulteriormente l’economia, aggravando la recessione e facendo ulteriormente salire verso l’alto il debito. E questo è esattamente quello che sta succedendo.
In Grecia anni di tagli alla spesa e di periodici licenziamenti nella PA non sono serviti ad intercettare la ripresa: in compenso hanno contribuito ad aumentare il debito pubblico, la povertà e il tasso dei suicidi, oltre che a fomentare l’odio razziale. Anche da noi, l’altro giorno Standard and Poor’s ha smentito la possibilità di una ripresa nel 2014. A nulla vale prendersela con le agenzie di rating americane: è storia che tutte le previsioni di ripresa economica basate su ricette di austerità si siano rivelate totalmente sbagliate.
La strategia dell’austerità, quella per cui si batte il nostro governo – anche se non ve lo dicono esplicitamente –, consiste nell’aumentare la competitività di un paese abbassando il costo della manodopera attraverso il lavoro precario e la disoccupazione. Ed è tecnicamente vero che, se ci adattiamo a prendere meno soldi e a rivendicare meno diritti, le nostre merci diventano più convenienti e si favorisce l’export. Il problema è che una ripresa basata sull’export ha bisogno, molto banalmente, di qualcuno che faccia import. Se noi vogliamo esportare, abbiamo bisogno di un paese che importi: ma se anche gli altri paesi cercano nel contempo di perseguire la nostra stessa strategia, il risultato è che non c’è nessuno che compra. Se in un contesto di recessione tutti puntano ad abbassare i salari, poi non c’è più nessuno che sostenga i consumi: viene a mancare un mercato di sbocco e nel complesso l’economia si deprime.
Per evitare che la crisi di Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia trascini con sé tutto il resto dell’Europa, alla lunga non rimane che un’alternativa possibile: incrementare la spesa pubblica per sostenere i consumi. Un’ipotesi assolutamente praticabile, che tuttavia non è mai stata presa in considerazione, perché – qui sta il punto – nell’attuale assetto europeo la spesa pubblica può essere finanziata solo con i soldi dei paesi del nord. I quali però non sono disposti a pagare per noi. E questa verità, tanto banale quanto incontestabile, non può che suggerire un’unica ricetta: lo scioglimento, possibilmente graduale e concordato, della moneta unica.
Se ne è reso conto anche Beppe Grillo, il quale due giorni fa, nel mentre in cui De Bortoli esprimeva per l’ennesima volta il suo sostegno all’esecutivo di turno, si decideva finalmente a indicare una strategia di uscita dall’euro. Attenzione: ciò non significa che Grillo abbia capito tutto su come si porta il paese fuori dalla crisi; senza contare che le sue esternazioni appaiono spesso orientate a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, più che a delineare una coerente strategia. Ma va rilevato che una terapia corretta è impossibile senza una diagnosi corretta: e Grillo si è deciso a fare, almeno per una volta, un’operazione di verità, oltre che un investimento politico sicuro e garantito.
Andrea Giannini