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Tsipras avrebbe dovuto dimostrare che fosse possibile quello che tutta la socialdemocrazia europea sostiene sia possibile: cambiare l'austerità per via politica, ossia trattando. La resa del premier greco segna la fine di questa illusione
Lunedì in extremis il governo greco ha comunicato alla Commissione il piano di misure che il paese si impegna a seguire. Bruxelles ha subito salutato la missiva con soddisfazione, perché Varoufakis, nei fatti, si è dovuto rimangiare tutte le promesse fatte da Tsipras in campagna elettorale. A titolo di esempio basti citare il fatto che verrà messa ulteriormente sotto controllo la spesa sanitaria (nonostante il paese sia già in piena emergenza umanitaria); e che il tanto sbandierato aumento del salario minimo è stato derubricato a “ambizione” da raggiungere “col tempo” e comunque «in consultazione con le istituzioni europee e internazionali».
Ormai è quasi impossibile nascondere il fatto che Tsipras ha gettato la spugna davanti alle autorità europee. Se ne sono accorti l’anziano partigiano Manolis Glezos, icona della sinistra, che ha già pubblicamente chiesto scusa agli elettori, e il grande compositore Mikis Theodorakis, autore delle musiche di “Zorbàs il Greco”, che ha rimproverato al premier di aver fatto marcia indietro rispetto a quanto promesso. C’è, oltre a questo, anche un altro episodio davvero emblematico, che ha già fatto il giro della rete.
Yannis Koutsomitis, che lavora per la BBC, ha scaricato da internet il pdf della lettera di Varoufakis e ha avuto la banale idea di controllare le proprietà del file: ha così scoperto che nel documento non è stato nascosto il nome dell’autore; che non è lo stesso ministro Varoufakis o qualche altro funzionario greco, ma “COSTELLO Declan (ECFIN)”, ossia il Declan Costello che si occupa di riforme strutturali per l’Unione Europea. Dunque la lettera che la Grecia avrebbe mandato all’Europa appare scritta, o quantomeno “riscritta” (per cambiare solo la forma?), negli uffici di Bruxelles: il che è in ogni caso un umiliante danno d’immagine per l’orgoglio del nuovo governo greco.
A questo punto, anche se quest’ultimo episodio non è stato considerato degno di attenzione dai media tradizionali, e anche se l’indice di gradimento di Tsipras nei sondaggi sembra ancora intatto, è evidente che la percezione di chi ha seguito il dibattito sull’euro cambia radicalmente. Avevo scritto la settimana scorsa che il discrimine per valutare la trattativa era capire se si sarebbe data l’opportunità al leader di Syriza di salvare almeno la faccia: e oggi possiamo dire che non è andata così.
Krugman scrive che alla Grecia è andata bene, solo perché «nulla di quello che è successo indebolisce la posizione greca» in vista del prossimo incontro: alla peggio tra quattro mesi saranno di nuovo al punto di oggi. Ma Krugman si sbaglia. Tsipras non doveva soltanto preoccuparsi di non uscire con le ossa rotta: secondo i suoi sostenitori (che stanno soprattutto a sinistra) avrebbe dovuto riportare almeno un piccolo successo. Avrebbe dovuto dimostrare, cioè, anche solo marcando un punto di principio, che fosse possibile quello che tutta la socialdemocrazia europea sostiene sia possibile: cambiare l’austerità per via politica, ossia trattando. La resa del premier greco segna invece la fine di questa illusione e sveglia la sinistra dal “sonno dommatico” che sia possibile una politica comune tra paesi creditori e paesi debitori.
È evidente, infatti, che qualsiasi politica sociale a difesa del lavoro, anche se legittimata democraticamente all’interno di uno stato, si scontrerà poi con le politiche e gli interessi divergenti che hanno gli altri stati: il che significa mettere i paesi gli uni contro gli altri e, soprattutto, rendere inutile la democrazia. Se lo stremato popolo greco chiede misure sociali e vota per un governo di sinistra, questo governo non può fare nulla, perché viene messo all’angolo dai più forti rappresentanti tedeschi, che a loro volta non possono permettersi di accollare il costo del debito dei greci ai loro contribuenti.
Il fallimento di Tsipras ha reso questo punto politico ormai irrefutabile. Ne hanno già preso atto in tanti (un articolo di Foreign Policy in pratica riprende quello che avevo scritto io due anni fa): e si è svegliata persino la sinistra italiana. In una intervista al Secolo XIX di mercoledì Stefano Fassina ha ammesso non solo che la Grecia dovrà gestire l’uscita dall’euro, ma anche che non importa se questo significa sposare la strategia della Lega Nord, perché «c’è il buon senso oltre la politica». Addirittura L’Espresso ha riportato sulla questione il parere critico di Emiliano Brancaccio e quello decisamente anti-euro di Vladimiro Giacché.
Si tratta insomma di una svolta epocale: da oggi parlare di smantellare l’euro a sinistra non è più tabù. Il che comporta, come ha notato giustamente Alberto Bagnai, la possibilità per molti intellettuali di tornare ad esporsi sull’argomento senza paura di essere evitati in quanto berlusconiani, grillini o leghisti. Insomma, i più potranno anche non essersene accorti: ma la “cattiva strada” è segnata.
Andrea Giannini