I pareri autorevoli che rimbalzano sui giornali italiani hanno tutti lo stesso difetto di fondo: non sono pareri scientifici e, perciò, non possono essere smentiti. I fondi degli economisti Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera sono un esempio di come persone molto esperte possano fare confusione tra le loro personali convinzioni e le conquiste della scienza
Alla discussione sull’euro sta partecipando anche il Corriere della Sera (o quello che ne resta), ospitando interventi assolutamente autorevoli: la lettera di Bini Smaghi, Saccomanni, Fitoussi & Co, collaboratori della Luiss School of European Political Economy, i quali sostanzialmente rigettano l’idea che uscire sia una soluzione; e l’editoriale del duo Alesina & Giavazzi, che al solito invitano a battere con più lena la strada su cui già siamo.
Si tratta di contributi che vale la pena prendere in esame, perché danno una buona idea di quali siano le argomentazioni dei sostenitori della moneta unica e del perché il dibattito non si possa definire, al fondo, un “dibattito economico”. Basta uno sguardo un po’ più attento, infatti, per accorgersi che spesso, accanto a motivazioni tecniche [a proposito delle quali, se proprio ci tenete, vi invito a leggere contributi come questo o questo], vengono addotte anche motivazioni che non dipendono da valutazione scientifiche “oggettive”, ma da considerazioni soggettive astratte, spesso di natura politica o morale, sulle quali si potrebbe e (si dovrebbe) discutere in modo laico.
Partiamo dalla lettera al direttore De Bortoli dei Bini Smaghi e dei Fitoussi, i quali scrivono: “Chi propone l’uscita dall’euro vuole in realtà tornare a quel modo di governare l’economia che la storia ha già condannato come fallimentare. I vantaggi dell’autonomia monetaria si rivelerebbero illusori. Al fine di contenere brusche fluttuazioni del cambio e di evitare fughe precipitose dei capitali, i responsabili delle politiche economiche italiane sarebbero infatti costretti a inseguire le politiche scelte dalle aree dell’euro e del dollaro”. È un autorevole parere, non c’è dubbio: ma non è un parere tecnico. C’è scritto, infatti, che fuori dalla moneta unica troveremmo solo l’instabilità finanziaria e che non ci sarebbe soluzione, se non quella di ancorarsi a una moneta forte. Ora, è impossibile che esperti tanto accorti vadano in giro a predicare, in generale, una simile idiozia. Tutti sappiamo che il mondo è pieno di paesi felicemente industrializzati che hanno la loro bella valuta pur senza poter vantare il peso economico degli Stati Uniti o della Cina. Un esempio? Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna, Svizzera, Nuova Zelanda, Canada, eccetera. Bisogna pensare, dunque, che i firmatari si stiano riferendo nello specifico all’Italia: noi italiani non saremmo in grado di fare quello che altri popoli fanno con successo.
Naturalmente è possibile; ma per sostenere questo punto di vista gli esperti della Luiss non evocano ragioni economiche. E questo per un motivo molto semplice: che non ce ne sono e non ce ne possono essere. Quale ragione scientifica, infatti, potrebbe spiegare perché una soluzione praticabile e già praticata non si può praticare? Evidentemente lo si può sostenere solo a patto che – è questo il punto – si evochino considerazioni politiche, morali o addirittura razziali, che dunque per loro natura sono opinabili. Neppure – benché i firmatari evochino una fantomatica “condanna della storia” – si può dire che esistano particolari ragioni desumibili dal nostro passato: al contrario, il fatto è che l’Italia repubblicana, fuori dallo SME e dall’euro, è stata praticamente sempre in crescita sostenuta (tradotto: avevamo dei problemi, ma meno di oggi).
Un altro giudizio ricorrente: “Il passaggio dall’euro alla lira non risolverebbe i problemi strutturali che da anni attanagliano l’economia italiana“. Anche in questo caso non siamo difronte tanto ad un’affermazione tecnica, quanto piuttosto a una banale tautologia. Quali economie non hanno problemi che si potrebbero definire “strutturali”? In linea di principio tutti hanno dei difetti da migliorare. E ancora: come si può pensare che ogni problema si risolva uscendo dall’euro? Ovviamente non si può: ad esempio, se il mio problema fosse lo scarso successo con le donne, evidentemente le cose non cambierebbero, se avessi la lira in tasca. Ma questo discorso non dice nulla su quale delle due soluzioni (restare o uscire) sia in effetti più conveniente.
Altro esempio: “Ritenere che si possa uscire dall’euro e al contempo rimanere a far parte a pieno titolo dell’Unione è una pura illusione. […] L’Italia verrebbe emarginata e isolata”. Pure questa è una valutazione politica; una valutazione che, tra l’altro, esprime una logica contraria al diritto internazionale (per cui ogni Stato ha diritto di scegliersi la propria moneta) e sembra particolarmente supportata da precedenti storici.
Anche i fondi di Alesina e Giavazzi sono un esempio cristallino di come persone molto esperte possano fare confusione tra le loro personali convinzioni e le conquiste della scienza. Dopo aver ammesso placidamente che nella fulgida era dell’euro pure la Germania ha già sforato la soglia del 3% del deficit, i due spiegano quale è il vero senso di questa imposizione proveniente dall’Europa: “Il 3% sarà anche una regola stupida, ma è l’unica forza che si oppone all’aumento delle spese, vista la nostra incapacità a contenerle”. Cioè, dobbiamo incatenarci a un parametro che ci strozza, non perché abbia un senso economico, ma perché siamo “incapaci” (naturalmente in relazione al fare quello che, nella visione dei due economisti, è indubbiamente un bene).
Siamo così di fronte all’ennesimo giudizio morale, sempre che – si capisce – gli autori non abbiano voluto sintetizzare in questo modo una loro analisi politica (sicuramente interessante, ma di cui si potrebbe discutere) o un’evidente risultanza storica. Tuttavia questa “evidenza” è tutta da dimostrare, dato che – lo ribadisco – in generale l’Italia con l’autonomia monetaria ha avuto performance nettamente migliori dell’Italia vincolata da accordi di cambio. Per cui si fatica a capire il punto del ragionamento: cosa c’è che non va in noi italiani? È il cibo che mangiamo? L’aria che respiriamo? Il troppo sole e il troppo mare? O forse i baffi neri e il mandolino?
Il fatto è che Alesina e Giavazzi hanno occhi solo per un fattore: l’abbassamento della spesa pubblica. Per i due economisti in questo momento sarebbe giustificata addirittura una dose da cavallo di tagli per 50 miliardi, perché: “l’Italia non si riprende senza uno choc”.
Ora, a parte il fatto che qui è ricalcata la solita idea che all’asino serva la cura del bastone (cosa che ricorda molto da vicino il metodo di governo descritto da Naomi Klein), e a parte il fatto che mi sembrava si fosse stabilito che di austerità ne avessimo avuta abbastanza, faccio notare che sono gli stessi Alesina e Giavazzi nel loro articolo a ricordare che ci siamo affacciati alla crisi del 2007 con un debito in discesa (al 100% del PIL, contro il 113% del 1998): dunque è dura scorgere la correlazione tra spesa pubblica e crisi economica. A smentire questo accostamento, poi, è già intervenuto lo stesso vice-Presidente della BCE Vítor Constâncio, il quale ha affermato che: «Gli squilibri si sono originati per lo più nella crescente spesa del settore privato, finanziata dal settore bancario dei Paesi debitori e creditori». Per cui si ha un bel da fare a cercare di dimostrare che tutti i mali si concentrano sulla nostra spesa: al contrario, è in tutti i dati, oltre che sulla pelle della maggioranza della gente (esclusi i super-ricchi, naturalmente), che non siamo mai stati così male come da quando abbiamo cominciato a dare retta agli Alesina e ai Giavazzi!
Forse giova citare, a questo punto, la ricostruzione fatta dal Prof. Claudio Borghi (ad esempio in questo video) a proposito del dibattito precedente lo sganciamento dell’Italia dallo SME. Borghi dimostra che anche allora le stesse persone (un esempio su tutti: Mario Monti) con le stesse identiche considerazioni di oggi profetizzavano sventure che puntualmente, quando poi effettivamente uscimmo nel settembre del ’92, non solo non si verificarono, ma furono anzi rimpiazzate da considerevoli effetti benefici che dovettero essere ammessi (anche dallo stesso Monti).
Il problema vero – e qui ritorniamo al punto – è che certe tesi apparentemente rispettabili hanno in realtà davvero poco di scientifico, perché non possono essere smentite. Per tanto che si tagli la spesa pubblica, essendo fisicamente impossibile ridurla a zero, essa sarà sempre troppo alta per chi ha una fede incrollabile nel principio che il peccato originale stia tutto lì. E quando un domani, abbandonato questo approccio, andremo a stare meglio, diranno che è stato merito loro; oppure diranno che, se avessimo continuato ancora per poco sulla strada che ci indicavano, saremmo andati a stare ancora meglio.
Ecco perché nonostante tutto, certi esperti, che pure hanno portato e portano considerevoli contributi scientifici, non cambieranno mai idea: perché al fondo sono ancorati a teorie generali indimostrabili o a visioni politiche e morali del tutto personali. È insomma quell’atteggiamento che Paul Krugman ha definito: “Ti continuerò a picchiare finché non mi dirai che stai bene”.
Andrea Giannini