La seconda e ultima parte dello speciale di "Polis" sul tema dell'uscita dell'Italia dall'euro. La riflessione si concentra sulla strategia politica europea che ha portato a un centro unico di governo svincolato dal processo elettivo
La settimana scorsa vi siete sorbiti una bella tirata su una teoria economica (non originale) da cui segue che bisogna uscire dell’euro. Questa settimana terminiamo il discorso, prendendo in considerazione i risvolti politici della questione.
Cominciamo a sgombrare il campo dagli equivoci. Uscire dall’euro non significa bloccare i commerci con l’estero, chiudere le frontiere o imboccare la strada di un cieca e becera autarchia nazionalista.
Dal punto di vista commerciale dire che i deficit strutturali sul lungo periodo non sono sostenibili, comporta ammettere che bisogna studiare un modo per riequilibrare l’import e l’export, o per finanziare il disavanzo di partite correnti dei paesi importatori (cioè evitare che continuino all’infinito a comprare più di quanto vendono, perché il sistema non può reggere): il che ovviamente non comporta ridurre o eliminare il commercio. Allo stesso modo, dal punto di vista culturale uscire dalla moneta unica non comporta richiudersi in sé stessi e rinnegare l’Europa, il multiculturalismo, i valori comuni, la cooperazione: anzi, è esattamente il contrario. Questo equivoco si deve al fatto che si sono volutamente sovrapposti tre termini che invece hanno significati ben diversi: “Europa”, “Unione Europea” e “Euro”.
Banalmente, l’euro-zona comprende 17 stati, mentre l’Unione Europea ne comprende ben 27: quindi ci sono 10 paesi che sono nell’Unione Europea, ma non hanno l’euro. Tra questi c’è ad esempio l’Inghilterra e la Polonia (che nel frattempo ha pure svalutato con effetti tutt’altro che catastrofici): e ovviamente non sono ridotti ai razionamenti, ma anzi, con buona pace degli espertoni stile Bruno Tinti, hanno un’economia che cresce, pur col freno tirato dalla recessione che noi gli stiamo regalando. Il termine “Europa”, invece, designa un concetto storico e culturale che non si vuole assolutamente negare o sminuire: ma far coincidere questo concetto con l’adozione di una moneta unica è una forzatura che nasconde la precisa volontà di condizionare le persone. Si cerca cioè di mettere in cattiva luce chi è contro l’euro attribuendogli un pensiero “anti-europeista”, conservatore e antistorico, quando le due cose non sono correlate (cioè, si può essere contro la moneta unica senza essere leghisti).
L’esperienza dimostra che l’euro ha allontanato i paesi europei, ha alimentato reciproci sospetti, costruito rancori e soffiato sul fuoco dei nazionalismi, come il recente exploit di Alba Dorata in Grecia sta a dimostrare. Per cui, se si vuole costruire davvero gli Stati Uniti d’Europa, bisogna cancellare questa moneta che distrugge i rapporti e ricominciare da capo con una vera integrazione: dove non ci sono cessioni di sovranità imposte dai burocrati a colpi di spread, ma “condivisione di sovranità” da parte di quei popoli che dimostrano democraticamente di perseguirla.
E tuttavia c’è da dubitare che si voglia davvero arrivare a questo, per una verità politica tanto banale quanto trascurata (anzi, rispetto alla liturgia mediatica corrente, direi quasi “esecrata”), la quale recita così: “gli interessi nazionali esistono”. Capisco che sia più confortante pensare che siamo tutti fratelli e ci vogliamo tutti bene, ma la realtà è che i lavoratori tedeschi, come quelli brasiliani o statunitensi, per quanto possano anche solidarizzare con i loro colleghi stranieri, hanno sempre privilegiato e continueranno a privilegiare quelle “ricette” che favoriscono le industrie per cui lavorano, anziché le industrie concorrenti all’estero. Ciò significa che la capacità di costruire legami transnazionali europei basati sulla convergenza di interessi comuni (categorie, tipo di lavoro, tassazione, ecc.) è limitata e superata dall’appartenenza ad una comunità nazionale. In altri termini non esiste un’unica società civile europea, ma un insieme disomogeneo di opinioni pubbliche nazionali. Questa frammentazione non è il frutto casuale di una mancata integrazione a lungo cercata, ma un obiettivo volutamente perseguito, che svela anzi gli interessi che hanno guidato la creazione della moneta unica.
Possiamo spiegarlo usando le parole di Mario Monti: «Alle istituzioni europee interessava che i paesi facessero politiche di risanamento. E hanno accettato l’onere dell’impopolarità essendo più lontane, più al riparo, dal processo elettorale» (Libro-intervista a F. Rampini, p. 40-41). Il principio di allontanare il centro del governo dalle dinamiche democratiche, che qui Monti rivendica come una mossa astuta, viene ovviamente giustificato con la pretesa di fare il bene delle masse a loro insaputa (“l’onere dell’impopolarità”), con un tono paternalistico che ritorna spesso nel mito delle élite illuminate dedite a forgiare il popolo europeo. Ma se dalle parole di Monti prendiamo il dato concreto, cioè l’illiquidità, la lontananza che separa il processo decisionale dalla società in cui si esplica, e lo confrontiamo con gli effetti concreti, allora emerge tutto il senso dell’operazione.
Il primo effetto concreto è, come anticipato poc’anzi, l’impossibilità della società europea di coalizzarsi per interessi di categoria, a causa dalla scarsa mobilità e dal permanere di concrete differenze regionali. Il secondo effetto emerge da un semplice raffronto. Fino al 1979 la lira non era imbrigliata in alcun rapporto di parità; la Banca d’Italia comprava i titoli di Stato rimasti invenduti (per calmierare lo spread); ed infine salari e pensioni erano al riparo grazie alla scala mobile, che le indicizzava all’inflazione. La filosofia che ispirava questo sistema è evidente: la moneta è una merce che si può benissimo apprezzare o deprezzare, ma bisogna evitare che i lavoratori finiscano preda dalla logica disumanizzante del libero mercato. Poi, con alterne vicende e un processo lungo vent’anni, iniziato nel 1979 e terminato nel 1999, ci siamo ritrovati con un sistema alternativo: c’è una moneta unica europea, per cui non ci si può difendere dalla concorrenza interna svalutando; la Banca d’Italia ha smesso di coordinare la sua azione col ministero dell’economia (prima che arrivasse la BCE e proseguisse l’opera); infine salari e pensioni non sono indicizzati. Appare piuttosto chiaro, dunque, che questo assetto privilegia una logica opposta: si deve proteggere la moneta dal mercato, mentre i lavoratori dovranno cavarsela da soli.
Questo risultato non si è prodotto a caso, ma è stato perseguito attivamente da chi ne aveva l’interesse. E chi ne avesse l’interesse è presto detto. Se vivete del vostro lavoro e fate poco risparmio, probabilmente vorrete salvaguardare il potere d’acquisto dei salari; se all’opposto riuscite ad accumulare discreti capitali, probabilmente vi viene comodo un sistema dove questi non si svalutano per l’inflazione, ma possono essere investiti comodamente andando alla ricerca del tasso di interesse più alto. Ne consegue che quelli che avevano o muovevano grandi capitali avevano un grande interesse: e quindi sapevano come fare, e volevano che si creasse, un sistema adatto alle loro esigenze. Osservo – per inciso – che, se ammettiamo che chi ha capitali da investire è consapevole di avere un ben preciso interesse, diverso da chi invece è vincolato al salario o alla pensione, stiamo ammettendo che gli interessi ci sono: e quindi che esistono anche le classi sociali. Un’ennesima prova del fatto che, anche se mancano gli interpreti, le categorie di destra e sinistra esistono ancora.
A questo punto basta mettere insieme i tre punti chiave emersi fin qui:
Questo quadro realizza precisamente l’ideologia del pensiero neo-liberista, che ha sempre propugnato la libera circolazione di merci e capitali, l’affrancamento dell’economia da ogni forma di controllo o tutela da parte dello Stato, la divisione del fronte sindacale (divide et impera) e soprattutto la costituzione di un quarto potere, dopo quello legislativo, esecutivo e giudiziario: il potere monetario, sottratto al controllo democratico e a cui è demandato il compito di controllare l’inflazione. E’ l’ideologia responsabile della liberalizzazione dei movimenti di capitali, della deregulation, della finanziarizzazione dell’economia, della penalizzazione dell’economia reale.
Dobbiamo concludere dunque che l’euro è solo l’ultimo tassello di una strategia per ottenere una società rigidamente di destra, dove il ceto dirigente ha finalmente tutti gli strumenti per disciplinare i lavoratori.
A questo punto è chiaro che le istituzioni europee e internazionali (UE, BCE e FMI) sono imbevute di questi presupposti ideologici. Hanno reagito ad una crisi di credito privato come se si fosse trattato di un problema di debito pubblico, perché porre dei vincoli al sistema finanziario, eventualmente nazionalizzare le banche, aumentare la spesa pubblica per far ripartire l’economia e acquistare illimitatamente titoli di Stato avrebbe comportato ammettere che il dogma del “privato è bello” e l’impianto di Maastricht, tutto concentrato sul contenimento del debito pubblico e dell’inflazione, è completamente sbagliato. Avrebbe significato ridiscutere i presupposti dell’organizzazione dell’economia e della società, col rischio di perdere tutte le conquiste del pensiero liberista degli ultimi trent’anni. Per cui finora si è scelto di tenere duro, anche se l’evidenza delle cose sta a poco a poco sgretolando la compattezza di questo fronte.
Chi è che avrebbe dovuto e dovrebbe tutt’oggi mettere sull’avviso le persone, dire che l’Unione Europea è un sistema per disciplinare i sindacati e scaricare sulle masse quegli aggiustamenti che prima si scaricavano su valute e capitali? Se il cambio fisso e la sua difesa (le politiche di austerità) sono evidentemente di destra, perché favoriscono chi accumula il capitale, chi doveva spiegare quale fosse l’alternativa che favorisse i salari e le pensioni? Ecco: da questo versante ci sono delle persone che hanno forti responsabilità storiche.
Perché la sinistra abbia abdicato al suo ruolo storico di difesa dei lavoratori non è facile a dirsi. All’inizio, in effetti, almeno il PCI si era mostrato scettico rispetto all’idea della parità del cambio. C’è addirittura un discorso dell’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel 1978 si pronunciò contro l’ingresso nello SME con motivazioni che oggi suonano addirittura profetiche. Poi a poco a poco le cose sono cambiate. Prodi “ci ha portato in Europa”; Napolitano non perde occasione per sottolineare la necessità di restare nell’euro; e Bersani, anziché prendere atto dei danni causati dall’euro e dall’indisponibilità tedesca a farsi carico degli oneri di una maggiore integrazione, continua ad illudere la gente con l’idea che basti contrattare con la Merkel un po’ di equità. E’ una facile previsione constatare che questa ostinazione, quando l’euro inevitabilmente finirà, costerà al suo partito un prezzo altissimo.
Ora niente. Si sta alla finestra e si guarda lo spettacolo. Purtroppo, anche se siamo alla vigilia di importanti elezioni, il dibattito pubblico non mette minimamente in discussione l’euro: nessun partito di un certo peso politico dice con chiarezza che bisogna uscire, mentre l’informazione fa terrorismo mediatico della più bassa lega.
Grillo, dal canto suo, per denigrare la vecchia politica continua a dire che il debito pubblico ci ha rovinato. Si tratta di una falsità che non aiuta a capire da dove sorga il problema: anzi, tende a generare l’errata convinzione che si debba tagliare la spesa pubblica, quando invece bisognerebbe aumentarla. Certo, Grillo sostiene pure una posizione critica sull’euro e addirittura la necessità di un referendum popolare sul tema. Peccato però che non sia possibile attendere l’esito di una consultazione referendaria, prenderne atto e poi mettersi a studiare come stampare una nuova moneta nazionale: perché nel frattempo assisteremmo ad una fuga di capitali che porterebbe davvero la gente ad assaltare le banche.
Quando ho scritto che un’uscita dall’euro sarebbe gestibile, non volevo certo dire che si potrebbe uscire con un semplice schiocco di dita, senza prendere alcuna precauzione. Al contrario tra le accortezze necessarie c’è proprio la necessità di negare l’eventualità di un’uscita fino all’ultimo: poi bisogna portare a termine l’operazione in un week-end, a mercati chiusi, mettendo tutti di fronte al fatto compiuto. Si tratta di una questione tecnica che però crea un problema politico: non si può fare dell’uscita dall’euro una bandiera elettorale, perché, come detto, bisogna evitare che i mercati anticipino la mossa. Però un politico potrebbe cominciare dicendo la verità: dicendo cioè che il debito non è il principale problema; che gli squilibri dell’euro sono stati la nostra rovina, più della corruzione e dell’evasione fiscale; che la rigidità del cambio aiuta i capitalisti e sfavorisce i salariati; che non c’è legge di mercato più importante della democrazia. Ma soprattutto dovrebbe dimostrare di essere interessato solo a fare gli interessi dei suoi concittadini: il resto verrebbe da sé.
Andrea Giannini