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Il sogno di libertà importato dall'America inizia a scricchiolare per le nuove generazioni già nei primi anni 60, qualcosa nell'aria sta cambiando e la musica sarà protagonista di questo cambiamento
Partendo dalla constatazione che negli ultimi 15 anni (almeno) raramente sarà capitato di ascoltare una produzione musicale realmente “nuova”, ho avviato una riflessione sul significato della parola “nuovo/novità”. Argomento piuttosto impegnativo ma al tempo stesso centrale rispetto alla riflessione musicale ed estetica contemporanea…
Cessato il rombo dei cannoni, iniziò la “guerra fredda”, fatta di spionaggi, ricatti ed eventi politicamente gravissimi che lasciarono il mondo, più volte, con il fiato sospeso per l’implicita minaccia di una nuova e più devastante guerra che contenevano. Basti ricordare nel 1956 e nel 1968, l’occupazione da parte sovietica, rispettivamente della Cecoslovacchia e dell’Ungheria e la “crisi cubana” del 1962. L’equilibrio del terrore- così venne definito – iniziò a scricchiolare con la venuta di Gorbaciov, alla guida dell’Unione sovietica. Il movimento di Solidarnosk in Polonia e il successivo abbattimento del muro di Berlino nel 1989, ne sancirono il crollo “definitivo” (che, bene intesi, non ha significato fine di soprusi, ruberie, ingiustizie…).
Ecco, questo nelle linee estremamente generali, sia chiaro, è lo scenario storico di riferimento, almeno per l’occidente. Bene. E noi? Bèh, noi giovani, nati dopo la fine della guerra nel “mondo libero” (il sottoscritto è del 1952), siamo cresciuti secondo il modello “libero” americano, espressione dell’ “American way of life” e del concetto di “nuova frontiera”, introdotto da J.F. Kennedy (che fu presidente degli USA dal 1960) in un celebre discorso. Gli americani, infatti, intervennero corposamente, finanziando con diversi milioni di dollari, attraverso il “piano Marshall”, la ricostruzione del nostro paese. Non si trattava di un aiuto disinteressato, tutt’altro. Il problema, per gli americani, era quello di evitare che l’Italia – segmento di terra proteso nel mar mediterraneo, verso l’Africa, e quindi d’importanza strategica – entrasse nell’area di influenza sovietica (non dimentichiamo che l’Italia già confinava con quella che allora era la Jugoslavia, paese satellite della Russia). Dunque, gli aiuti del “piano Marshall”, assicuravano che l’Italia entrasse a far parte, attraverso la Nato e il Patto Atlantico, dell’area di influenza americana.
Con la ricostruzione, arriverà il consumismo (il mito dell’automobile, gli elettrodomestici ecc…) reso “piacevole” dalla pubblicità e contrappuntato dai film americani, dalla “musica giovane” – di cui il 45 giri fu l’emblema – e sostenuto in maniera sempre più melliflua e invasiva da lei… si…: la televisione!
Ed è innegabile che noi giovani occidentali avessimo maggiore libertà rispetto ai nostri coetanei russi, cinesi o cubani. Tuttavia, questo mondo fatto di consumo, dove il “valore” (ipotetico) di una persona veniva misurato dalla somma degli oggetti che possedeva (e più erano di lusso più uno era ritenuto importante, ossia V.I.P. – very important person), cominciò ben presto a non convincere molti giovani, intellettuali, persone sensibili.
Si iniziò a sospettare di questo “futuro libero”, bello, pronto e impacchettato, a disposizione di tutti (…coloro che potevano comprarselo…!!). E piano piano, il fascino del neon delle insegne delle metropoli, la forma slanciata della statua della libertà, lo sfavillio delle luci dei teatri di Broadway, il sorriso a denti bianchi dei finali dei film e telefilm americani, non riuscì più a coprire le ipocrisie di sempre, gli omicidi politici (i fratelli Kennedy, M. L. King, Malcom X), la segregazione razziale, la rovina dell’ambiente con un inquinamento crescente, la distruzione dell’economia e delle tradizioni contadine in nome del “progresso industriale” (nel film “Il laureato”, c’è una battuta che dice: “…ricorda ragazzo, il futuro è nella plastica…”), l’incubo nucleare e prima di tutto la guerra in Vietnam, una guerra – oltretutto – nemmeno mai dichiarata. In realtà già dalla seconda metà degli anni ’50, diversi giovani artisti e intellettuali iniziarono a non riconoscersi più in questa “libertà” che ritenevano, appunto, ipocrita e finta. Il loro disagio prendeva il connotato del “male di vivere”, della crisi esistenziale, consapevole espressione di un rifiuto dei valori dominanti.
Gianni Martini
4 commenti su “La generazione post conflitto mondiale e l’American Way of Life”