Il problema non è certo quello (genetico) di subire il fascino carismatico del leader forte: è piuttosto quello (storico) di avere avuto poche occasioni per esercitare la libertà
Dopo l’exploit di Parma e i sondaggi che danno il suo movimento quasi al 20%, Beppe Grillo è diventato la vittima prediletta dall’ossessività compulsiva dei mass-media. Dopo essere stato bandito da tutte le televisioni per una battuta sui socialisti (battuta che si era poi rivelata profetica), è stato riscoperto magicamente a distanza di vent’anni; fino al punto che oggi giornali, telegiornali e cinegiornali lo seguono ovunque vada per coglierne ogni sospiro e possibilmente montarci una polemica sopra (aiutati certamente dalla vena provocatoria del comico).
L’ultima in ordine di tempo è stata: “Grillo contro il Financial Times”; quasi un’epopea mistica da film degli anni ’60, del tipo: “Ercole contro Roma”. In realtà Grillo ha soltanto risposto, e anche piuttosto pacatamente, a un articolo apparso sul Financial Times a firma del giornalista del Corriere della Sera Beppe Severgnini. Severgnini, che è volto piuttosto noto perché partecipa spesso ai dibattiti televisivi, è un saggista simpatico, alla mano, di nota fede interista e con una vena esterofila che lo ha portato a pubblicare libri in inglese per spiegare l’Italia agli stranieri. L’articolo in questione recava l’eloquente titolo “Lo stridente fascino del Grillo Parlante d’Italia” e si proponeva – ovviamente – di svelare ai lettori del prestigioso quotidiano britannico i retroscena dell’exploit elettorale di Beppe Grillo. Nel suo pezzo Severgnini accosta il comico genovese prima a Berlusconi e poi addirittura a Mussolini. E Grillo ovviamente si arrabbia. Scrive al direttore del Financial Times definendo il paragone “offensivo” e concludendo: «In futuro spero di leggere sul suo prestigioso giornale articoli più qualificati ed obiettivi sulla politica italiana».
Una vicenda che, tutto sommato, ha poco da dire e che potremmo evitare tranquillamente di menzionare, se non fosse per un punto che esula dall’argomento Beppe Grillo e che riguarda il contenuto specifico dell’articolo. Quando Severgnini paragona il fondatore del Movimento 5 Stelle a Mussolini, in fin dei conti esprime una libera opinione: un’opinione semplicistica, a mio giudizio, ma un’opinione che comunque va rispettata e che non è certo stata inventata dal giornalista del Corriere (esistono da tempo diverse declinazioni del lato autoritaristico di Grillo, tra cui quella del “Berlusconi di sinistra”). Se Severgnini vuole spiegare in questi termini il fenomeno Grillo ai suoi lettori stranieri, è liberissimo di farlo.
Stupisce però che un giornalista così bravo si avventuri in un’analisi della cultura populista nostrana passando per i più scontati luoghi comuni sugli Italiani e tradendo una forte sudditanza psicologica verso la cultura anglosassone. Severgnini conia addirittura la definizione di “Populismo 2.0” e butta nel calderone insieme con Grillo: Bossi, Berlusconi, Tsipras del partito greco Syriza e persino il movimento dei “pirati” tedeschi. Un’analisi non proprio raffinatissima, in cui gli Italiani, per di più, fanno una pessima figura. Severgnini infatti li tratteggia come una massa succube di leader carismatici e autoritari, e come un popolino credulone preda del pifferaio magico di turno (Grillo) e incapace di valorizzare il professionista serio e preparato (Monti): il quale invece, pare di capire, non sarebbe snobbato da quella borghesia anglosassone a cui Severgnini strizza l’occhio.
Difficile sfuggire all’impressione che questo quadro risulti un po’ offensivo per l’intelligenza media del popolo italiano. Non lo dico per patriottismo, che con la questione non c’entra nulla: lo dico perché credo che il giornalista sia stato piuttosto superficiale. Un conto è non risparmiare critiche a nessuno, nemmeno ai compatrioti; un’altra cosa sono i preconcetti, che non aiutano né gli stranieri a entrare in sintonia con noi, né noi a capire noi stessi. Contesto a Severgnini, in particolar modo, di aver ceduto a una visione pseudo-storica che dipinge l’italiano medio come incline al richiamo dell’uomo forte. Penso invece che questa tendenza vada interpretata dal punto di vista di una democratizzazione mai realizzata fino in fondo, come l’emancipazione e l’autogoverno mancati delle masse popolari. La storia d’Italia, che è una nazione giovane, non è la storia del popolo italiano: è piuttosto la storia delle sue élites politico-economiche e delle ingerenze straniere subite. Per questo le masse popolari non hanno mai abbandonato l’atavica diffidenza verso il potere che è tipica di chi ha imparato a vivere sottomesso.
Ad esempio, dopo secoli di dominio straniero e papale, l’indipendenza dell’Italia fu ottenuta solo nel 1861: e non fu certo il frutto di un movimento popolare. Fu piuttosto il capolavoro politico e militare di due grandi personalità, Cavour e Garibaldi, che beneficiarono anche della benevola attitudine dell’Inghilterra. Dopo di che l’Italia fu governata dalla classe dirigente sabauda e dai gattopardi dei vecchi possedimenti borbonici. Fu solo nel 1912 che Giolitti concesse il suffragio universale maschile, uno strumento potenzialmente in grado di aprire alle masse la vita politica del paese. Eppure già quattro anni dopo il popolo italiano venne scaraventato suo malgrado in un’orribile guerra europea essenzialmente per le pressioni di piccoli gruppi di nazionalisti romani e per la precisa volontà politica di tre persone: il re Vittorio Emanuele, il primo ministro Antonio Salandra e il ministro degli esteri Sideny Sonnino.
Anche il successo del fascismo dipese molto dal fatto che Mussolini fu in grado di accreditarsi presso le élites industriali come l’uomo dell’ordine e della stabilità contro la propaganda rossa; mentre non riuscì a prendere mai, fintanto che le elezioni restarono libere, nemmeno un terzo dei voti popolari. E quando nel ’22 andò al potere, lo fece grazie ad un pugno di militanti in camicia nera, dei quali il Duce temeva il fallimento al punto da starsene in attesa al confine con la Svizzera, pronto ad espatriare se le cose fossero andate storte. Sarebbero bastati due colpi di baionetta dei carabinieri per disperderli: ma il re non volle intervenire e gli Italiani si adattarono, come al solito, a diventare fascisti sotto il fascismo, anche se è pur vero che il consenso verso il regime conobbe momenti di spontaneo entusiasmo ai tempi della guerra in Etiopia. Ma ovviamente il parere del popolo non contava nulla.
Dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, grazie a una nuova e moderna costituzione, gli Italiani, e stavolta anche le Italiane, sperarono di poter cominciare davvero a occuparsi di ricostruire il paese in autonomia. Ma nei decenni a venire l’idealismo si affievolì, perché il paese si scoprì di fatto zona di confine tra due blocchi contrapposti e terra di conquista per agenti della CIA, uomini del KGB, mafiosi e rivoluzionari rossi. Bombe, omicidi, stragi e sequestri divennero così uno strumento di pressione sul paese, un modo per impedire a industriali e dirigenti pubblici di scardinare gli equilibri geopolitici internazionali, a magistrati e giudici di indagare troppo a fondo, a giornalisti di raccontare verità scomode e a movimenti popolari di affermarsi.
Quando scoppiò Tangentopoli, il consenso bulgaro che l’operato del pool di Di Pietro riscosse tra la gente ben descrive il senso di soffocamento e asfissia con cui veniva vissuto il sistema di potere dei partiti, che ingessava la vita politica e drenava le risorse pubbliche. Ed è in questo contesto che si spiega anche l’exploit della Lega Nord come partito di protesta. Forse Tangentopoli durò troppo a lungo; forse la aspettative di rinnovamento che inevitabilmente le inchieste suscitarono non furono soddisfatte in tempo: fatto sta che la gente poco a poco si stancò e diede fiducia al bellissimo sogno di cartapesta fatto di ottimismo e prosperità economica prospettato dal nuovo venuto: Silvio Berlusconi. Eppure persino il Cavaliere durò solo pochi mesi e ci vollero tutti i vantaggi della sua posizione di potere e tutta l’inconsistenza dei suoi avversari politici per risuscitarlo e tenerlo in vita per un’altra decina d’anni.
Oggi che non ci sono più dominazioni stranieri, non c’è più la guerra fredda, non c’è più Mussolini e non c’è più Berlusconi, le cose sono cambiate poco: siamo ostaggio di un parlamento di cooptati e di un governo che non abbiamo votato, che a sua volta deve rendere conto ad una governance europea in cui prevalgono gli interessi di altri Stati. Come si vede, dunque, nel corso della nostra storia sono state poche le occasioni in cui, come popolo, abbiamo avuto davvero voce in capitolo. Certo, quelle poche non siamo stati capaci di coglierle: ma d’altra parte non abbiamo mai maturato né l’esperienza né la cultura necessarie.
Il problema non è certo quello (genetico) di subire il fascino carismatico del leader forte: è piuttosto quello (storico) di avere avuto pochissime occasioni per esercitare la libertà. Dei cosiddetti “leader populisti” di successo si dimentica spesso di ricordare che sanno proporsi come alternativa di rottura rispetto ad una situazione esistente percepita come negativa. Presentare Grillo come un anti-europeista che cambia spesso idea, che offre «risposte semplicistiche a problemi complessi» e che piace agli Italiani perché è simpatico e fa il buffone, è svilente per Grillo, certo: ma è svilente soprattutto per gli Italiani, che vengono trattati come bambini spaventati incapaci di arrangiarsi senza la tutela di questa classe dirigente.
In realtà quello che per molti è davvero centrale nella proposta politica di Grillo riguarda, da una parte, la demolizione delle consorterie politiche, finanziarie e mafiose che condizionano lo sviluppo civile ed economico del paese, dall’altra la responsabilizzazione civica e democratica dei cittadini, che devono imparare ad accettare il prezzo della loro partecipazione attiva alla vita pubblica. In altri termini, è quell’ideale di democrazia che ci è sempre stato negato e che per l’ennesima volta, sembrerebbe, stiamo cercando di ottenere. E’ l’idea di Grillo che preferisco e quella che mi piacerebbe potesse sopravvivere alle sue contraddizioni.
Andrea Giannini