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Napoli tra i suoi immortali santuarietti del gioco, il botteghino del lotto e l'aiutino dei defunti (altrui). Lo spettacolo in scena al Teatro della Corte fino al 29 gennaio
La Compagnia di teatro di Luca De Filippo ci propone un gustoso ventaglio di caratteristi e caratteristiche del miglior teatro napoletano, immergendoci in un mondo di ieri, vintage sì, nell’abbigliamento, ma non certo sorpassato, teso ad inseguire il sogno tutto italiano (forse…) del colpo di fortuna al gioco: un mondo a tinte forti di famiglie e di vicinato, fatto di aspettative, di credenze, di ostinazioni, di maledizioni, di dispetti, di invidie.
Ferdinando, il protagonista,è il proprietario del banco del lotto e, da buon napoletano, giocatore seriale anche lui, come il suo sottoposto Mario; quest’ultimo, a differenza del principale, è fortunato al gioco e lo è soprattutto stavolta, azzeccando il colpo grosso sui numeri forniti in sogno proprio dal padre defunto di Ferdinando.
La fortuna di Mario fa esplodere l’indole meschina ed invidiosa del protagonista: egli sostiene che il padre si è sbagliato, nel buio della notte ha confuso le persone, i numeri voleva mandarli a lui, suo figlio, perciò suoi sono i numeri, sua la vincita, suo il biglietto che contiene la fortuna.
In genere l’essere umano tende a respingere le accuse di nutrire sentimenti negativi; la peculiarità di Ferdinando è invece quella di ammettere platealmente la sua invidia, che definisce “sete di giustizia” verso le persone più fortunate ma meno meritevoli. Perciò l’uomo scarica sul fortunato malcapitato una lunga ed articolata maledizione, qualora osasse riscuotere la vincita, un’invettiva pregna di una tale forza negativa di suggestione da impedire in pratica a Mario di riscuotere la vincita.
Sonnecchia in Ferdinando, parallelo all’invidia, un soffuso astio verso un giovane che, non pago di essere fortunato, è anche corteggiatore, gradito alla moglie, di sua figlia, nel silenzio complice di ambedue le donne:sentimento non estraneo ai padri di tutti i tempi quando percepiscono di essere tenuti al di fuori dalle faccende domestiche di una certa importanza, considerando la cosa come un affronto alla propria dignità di pater familias.
Il finale, dopo quasi due ore di incalzanti trovate di verace napoletanità, che passano senza pesantezze, riporta la pace e l’accordo in famiglia e nell’enturage, intorno ad una tavolata colma di cibi non proprio da buongustai, coronata dall’annuncio delle nozze imminenti.
Scenografia originale dai colori decisi e naif, nella suggestiva trovata di un palcoscenico incorniciato fuori scena dai numeri del lotto. Una parlata napoletana a tratti assai stretta, più intuita che compresa ( potrebbe essere attenuata con il trucco goviano della ripetizione delle battute in italiano), non intacca la bravura e l’affiatamento degli attori.
Scritta da Eduardo De Filippo nel 1940, “Non ti pago” ha il merito di aver orientato la critica ad una valutazione più oggettiva dell’arte dei De Filippo, fino a quel momento apprezzati come attori ma ritenuti di secondo piano come autori. L’indole “negativa” del protagonista pare contrapporsi a quella positiva del padre di famiglia di “Napoli milionaria” (1945), il sensato marito che esorta a lasciar passare la nottata per ristabilire le situazioni: non a caso Eduardo De Filippo inserì in origine le due tragicommedie nella medesima raccolta “La cantata dei giorni dispari” .
Elisa Prato
+ “Non ti pago” al Teatro della Corte – Teatro Stabile di Genova dal 24 al 29 gennaio
di Eduardo De Filippo, diretto da Luca De Filippo (alla sua ultima regia) e prodotto dalla sua Compagnia.