Sullo sfondo dell’infuocato dibattito sulla stepchild adoption, che presto tornerà all’ordine del giorno dell’agenda politica italiana, abbiamo deciso di dedicare il nostro speciale di marzo a fare chiarezza sul mondo delle adozioni. Partiamo dall’abc. Chi può adottare? Chi si può adottare? Come?
Il decreto legge Cirinnà, apparentemente, non ha fatto felice nessuno, perlomeno nessuno che non si accontentasse. Un suo merito, però, è stato quello di riaprire il dibattito sulla situazione generale delle adozioni in Italia. La questione, infatti, è decisamente complessa e non è semplice fare chiarezza, vista anche la scarsità di dati aggiornati e dettagliati e la loro non omogeneità. Cercheremo di farlo rispondendo alle domande che noi per primi ci siamo posti, grazie anche al prezioso aiuto della professoressa Gilda Ferrando, ordinaria di Diritto di Famiglia all’Università di Genova, autrice di diversi libri sulla materia, la cui collaborazione è stata molto preziosa per tentare di ricostruire un quadro più completo possibile.
Partiamo dalla norma. Così recita l’articolo 1 comma 1 della vigente legge n. 184/1983: “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”. La legge n. 149/2001 ha in parte modificato il testo, introducendo un capitolo specifico sul “Diritto del minore ad una famiglia”.
Capire e conoscere l’evoluzione dell’istituto “adozione” è importante per pesare le parole che sono state spese da molti per dire che il bambino deve stare al centro del dibattito sulle adozioni. L’argomento è tornato all’attenzione di tutti con gli scontri sulla stepchild adoption (o, in italiano, adozione del configlio) proposta dal ddl Cirinnà sulle unioni civili, poi stralciata. Solo dal 1967, infatti, il bambino viene considerato un soggetto di diritti con la legge che introduce l’adozione speciale. Questa, nello specifico – così chiamata per distinguerla dall’adozione ordinaria a cui si ricorreva per una questione di successione ereditaria del patrimonio e del cognome – vuole dare al minore il diritto a una famiglia.
Con la legge del 1983 si scinde nettamente l’adozione del maggiorenne dall’adozione del minore. Si introduce anche l’affidamento familiare, visto come uno strumento di sostegno per la famiglia d’origine. Questo dovrebbe idealmente arrivare dopo altre forme di sostegno, per esempio quello economico (art. 2). È una premessa di cui tenere conto quando si considerano le difficoltà che riscontrano le coppie che sono in lista d’attesa per l’adozione.
Il presupposto per l’intero processo di adozione è che il bambino sia in uno “stato di abbandono morale e materiale”. Prima di decidere che la natura dell’abbandono sia definitiva, lo Stato, tramite gli enti locali come i servizi sociali, deve assistere la famiglia di origine nell’interesse del bambino: in un mondo ideale la povertà non dovrebbe essere una discriminante per condurre una vita degna con la propria famiglia.
Mentre l’adozione è intesa a dare una nuova famiglia, in maniera irreversibile, a un bambino in stato di abbandono, l’affidamento è inteso come un supporto temporaneo al bambino e alla famiglia di origine, a cui dovrebbe fare ritorno. La distinzione mira a tutelare ancora una volta il diritto del minore “alla propria famiglia”.
Ma chi può prendere in affidamento un minore? Abbiamo due possibilità: una famiglia (preferibilmente con figli minori) o una persona singola in grado di assicurarne il mantenimento, l’istruzione, l’educazione e le relazioni affettive. Da sottolineare anche che, giudicando esclusivamente l’interesse del minorenne, ci sono alcune sentenze che hanno concesso l’affidamento anche a coppie omosessuali. Nei casi in cui l’affido familiare non sembra possibile, inoltre, il minore può essere affidato a una comunità.
Quando i problemi della famiglia d’origine sono considerati non risolvibili, cioè quando si è concretizzato lo stato di abbandono morale e materiale, il minore viene dichiarato adottabile. Anche in questo caso, le strade da percorrere possono essere due. L’interpretazione più rigida della legge porta a cercare una coppia di coniugi disponibili all’adozione e compatibili con quel bambino, per poi procedere all’affidamento preadottivo, della durata di un anno con possibilità di proroga per altri 12 mesi e al cui termine si può procedere all’adozione vera e propria, in genere in una famiglia terza rispetto a quella naturale e quella affidataria. La seconda strada è quella dell’adozione in casi considerati particolari: se durante l’affidamento prolungato il minore è dichiarato adottabile e la famiglia affidataria chiede di adottarlo, il tribunale ne tiene conto, sempre nell’interesse del bambino e può concedere l’adozione senza interrompere il rapporto con la famiglia d’origine.
Una riforma dell’affido familiare è stata fatta con la legge n. 173/2015 “Sul diritto delle bambine e dei bambini alla continuità delle relazioni affettive”. Rimane la valutazione del giudice caso per caso, a sottolineare che l’affidamento prolungato non determina a priori la scelta dell’adottante, ma l’interesse di quel bambino. La giurisprudenza racconta anche di alcuni casi in cui i giudici non hanno tenuto conto dell’affidamento familiare, per i quali l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo. La recente riforma ha introdotto l’obbligo di sentire gli affidatari nel procedimento di adozione, che devono comunque avere i requisiti per l’adozione piena o possono tentare di ricorrere all’adozione in casi particolari.
Sono interessanti i dati del Rapporto del 2014 del Gruppo CRC (gruppo di lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza) sugli affidamenti in Italia: “Il 56,7% dei minorenni – si legge – è affidato da più di due anni, confermando che la pratica dell’affido “a lungo termine” è ancora una realtà sulla quale è urgente un serio confronto; per avere un quadro più chiaro a questo riguardo, sarebbe necessario anche rilevare gli affidamenti familiari che partono come consensuali e che dopo due anni proseguono come giudiziari”. Al 31 dicembre 2012, il 74,2% degli affidamenti era giudiziale, cioè non richiesto dai genitori ma disposto dalla magistratura preposta; in testa la Liguria con il 94,8%. Il Rapporto lamenta invece la mancanza di dati sui tempi di permanenza in comunità. Lo strumento dell’affido, cioè l’allontanamento dalle famiglie d’origine, è concepito come ultima risorsa, preceduta da altri interventi.
Quando parliamo di adozioni, abbiamo un’ulteriore distinzione da fare, in base all’origine del minore. Per quanto riguardo quelle nazionali, possono adottare i coniugi (va da sé che per la legge debba essere una coppia sposata, dunque, per il nostro ordinamento, eterosessuale) che abbiano richiesto ed ottenuto il decreto di idoneità dal tribunale dei minori. I requisiti per presentare domanda di disponibilità all’adozione sono quelli di essere sposati da almeno 3 anni (può essere considerato anche un periodo di convivenza prima del matrimonio, se dimostrabile), di non essere separati, di poter provvedere economicamente al mantenimento del figlio, di avere una differenza di età non inferiore ai 18 anni e non superiore ai 45 per uno e 55 per l’altro coniuge rispetto al bambino (requisiti che possono variare in presenza di un figlio minore e per chi intende adottare due o più fratelli).
I requisiti per ottenere l’idoneità all’adozione sono valutati dai giudici analizzando la documentazione presentata e tramite colloqui con gli aspiranti genitori e relative indagini finalizzate ad accertare la loro capacità a mantenere, crescere ed educare il minore. Questi ultimi due passaggi sono affidati ai servizi sociali presenti nella zona di residenza dei coniugi che invieranno una relazione dettagliata al giudice. Qualora fossero considerati idonei all’adozione, si guarda tra i minorenni in stato di adottabilità quello adatto alla coppia e viceversa. Dopo un anno di affidamento preadottivo (ossia quell’affidamento inteso a concludersi con l’adozione vera e propria e non come periodo di passaggio per sostenere difficoltà temporanee della famiglia d’origine) e sentiti i diretti interessati, il tribunale pronuncia la sentenza di adozione.
Per adozioni internazionali si intendono tutte quelle in cui il minore non sia cittadino italiano e ancora più genericamente quelle in cui adottante (la coppia di coniugi) e adottando (il minore) abbiano nazionalità diverse. Il caso più frequente e dibattuto è l’adozione da parte di italiani di un minore che risiede all’estero. La Convenzione dell’Aja, a cui la legge 183 si richiama nell’articolo 29, demarca le responsabilità dei due paesi eventualmente coinvolti nell’adozione. Al paese d’origine spetta decidere dell’adottabilità del bambino, mentre il paese di accoglienza decide dell’idoneità degli aspiranti genitori. Il raccordo è dato dalle autorità centrali e dagli enti autorizzati, che fungono da tramite per i due paesi.
In Italia si svolge la prima fase con la dichiarazione di disponibilità all’adozione e l’idoneità. La seconda parte del lungo processo inizia nel paese d’origine del minorenne, con la sentenza di adozione disposta delle autorità, e si conclude con il trasferimento. Prima della sentenza di adozione si può ricorrere a un periodo di affidamento preadottivo, come nel caso dell’adozione nazionale. In Italia l’adozione piena prevede che non ci siano più contatti con la famiglia e deve esserci il consenso dei genitori naturali del minorenne, previa, ovviamente, omogeneità della giurisdizione in materia tra i due paesi.
Un’altra possibilità sussiste quando una coppia o una persona singola residente all’estero abbia adottato un minore in questo paese. Una volta in Italia si presenta l’esigenza di riconoscere il provvedimento del paese di origine: adozione a tutti gli effetti o adozione ”particolare”, secondo l’articolo 44 della legge 184? In queste situazioni, la magistratura decide caso per caso.
L’adozione in casi particolari è disciplinata dall’articolo 44 della legge 184 e, come sottolinea la professoressa Ferrando, «si è prestata a garantire la formalizzazione di situazioni familiari di fatto nell’interesse del bambino».
Le situazioni particolari si presentano quando non ci sono tutte le condizioni proprie viste in precedenza ma il minorenne ha comunque bisogno di un’altra famiglia che lo accolga. I casi eventuali sono indicati nello stesso articolo, come l’adozione da parte del coniuge di un genitore, previo consenso dell’altro genitore del bambino: si aggiunge, infatti, un adottante alla precedente situazione famigliare e si formalizza una cogenitorialità già esistente. Altra situazione è quella del bambino orfano di entrambi i genitori ma con parenti disposti a occuparsi di lui o persone con cui è già legato significativamente come amici di famiglia, insegnanti o il convivente di uno dei genitori defunti. Con un’adozione piena, il minore perderebbe ogni legame anche con i restanti membri della famiglia di origine, come i nonni, che invece l’adozione speciale conserva. C’è, infine, l’ipotesi in cui “vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo”: è la situazione più flessibile, ideata per poter formalizzare situazioni familiari di fatto, in cui il bambino è già legato ad altre persone.
Come ricorda la professoressa Ferrando, prima che ci fosse la legge 40 del 2003 sulla procreazione assistita, la gestazione per altri, o maternità surrogata, non era vietata in Italia. Era proprio l’istituto dell’adozione in casi particolari a dare una formalizzazione giuridica a queste situazioni, con il marito, padre genetico, che riconosceva il figlio, e la moglie con la quale aveva condiviso il progetto di genitorialità. Questo strumento è stato usato anche per coppie omosessuali dalle Corti di Appello di Milano e Roma con sentenze motivate sempre dall’interesse del bambino, come prescritto dalla legge.
Di che cosa non si occupa la nuova legge? Degli affidatari che non hanno i requisiti per l’adozione piena, vedi le persone single o non coniugate. La riforma dovrebbe andare in questa direzione rendendo la legge adatta ad una realtà più fluida e particolareggiata. La flessibilità richiesta potrebbe trovare il suo perno proprio nell’articolo 44 della legge vigente, quello sulle adozioni particolari. Un eventuale intervento dovrebbe certamente rispondere alle richieste della Convenzione Europea che l’Italia ha sottoscritto, normando le adozioni da parte di singoli e da parte di coppie omosessuali (anche se a livello comunitario questo aspetto è lasciato alla discrezionalità dei singoli Stati). Cirinnà o meno, quello che il legislatore dovrebbe tutelare, sono tutte le situazioni particolari che sono subentrate in questi anni, come quelli che di fatto saranno nuovi nuclei familiari.
Kamela Toska