Elisabetta, casalinga genovese di 48 anni, ci racconta l’accoglienza del suo terzo figlio, un bimbo arrivato con l’affido familiare e qualche problema di salute. “Nessun figlio, neanche quello adottato, diventa nostro e a diciotto anni andrà dove la sua storia lo porterà”
La nostra esperienza di affido familiare è iniziata con un pizzico di spavalderia e parecchia improvvisazione. Siamo in quattro in famiglia, abbiamo due ragazzi ormai grandi: una volta, parlando dell’argomento a tavola, ci siamo detti che avremmo, perché no, potuto farcela, eccome.
Ho continuato a pensarci su e alla fine ho deciso di provarci: andando in Comune e consegnando la domanda, sono scattate tutte le incombenze burocratiche necessarie; ho dato la disponibilità per l’accoglienza in casa. A questo punto eravamo coinvolti tutti e quattro: abbiamo sostenuto dei colloqui psicologici, noi adulti prima singolarmente poi come coppia, e i ragazzi sia da soli, sia assieme a noi.
Una volta superati i colloqui, ci sono stati gli incontri a domicilio: gli assistenti sociali, visitando l’abitazione, hanno visto che non avevamo ancora una cameretta pronta per il nuovo arrivato. Fermi tutti, come mai non avete previsto una camera? Semplice, credevamo di essere noi l’offerta, non la cameretta. Ci guardano colpiti e…«ok, un bambino arriverà da voi, siete idonei».
Felicità, stupore, ansia: sono passati solo 5 mesi dalla domanda e ci comunicano che il bimbo è già stato individuato. Ha qualche problema e ci convocano nell’ufficio competente per darci le istruzioni del caso. In quel momento ci invitano a ripensarci, a prenderci del tempo se ne abbiamo bisogno, ma noi siamo ormai decisi e ansiosi di averlo con noi.
Quando ci avvisano della data in cui lo avremmo conosciuto, ci comunicano anche che verrà direttamente a vivere con noi senza passare dalla Casa Famiglia e per questo siamo felici. Non sappiamo però nulla se non l’età, approssimativamente, nessuna foto, niente. Prepariamo un corredino di varie taglie, pappe ciucciotti e biberon, prendiamo tutti vacanza per essere presenti in questa giornata fatidica.
Non dimenticheremo mai il momento in cui hanno suonato alla porta ed è entrato l’educatore con lui in braccio: piccino, piccino, silenzioso e tranquillo, tutto “mangiare e dormire”. Solo più tardi mi avrebbero spiegato che i bambini provenienti da storie di disagio, non reagiscono al distacco con pianti e urla, ma imparano a stare in silenzio.
Oggi, i suoi problemi di salute ci impegnano molto, ma vediamo anche dei rapidi progressi: i primi passi, le prime parole, gli abbracci infiniti, che non sono scontati come quelli dei figli biologici, ma conquiste da meritarsi giorno dopo giorno.
Sono passati ormai cinque anni da quel giorno, che sembra ieri e un secolo fa nello stesso momento; cinque anni, fatti di passeggini, biciclette, braccioli e piscina, pappe asilo e cartoni animati. Sia io che mio marito ci siamo tuffati nuovamente in questo mondo che pensavamo superato e, anche se a volte faticosamente, non abbiamo mai nemmeno immaginato di poterci risparmiare in qualche modo. I nostri figli più grandi hanno messo in campo un entusiasmo e una partecipazione che, lo ammetto, neanche io avrei creduto.
Una volta al mese ci incontriamo con l’educatore, nello spazio famiglia, con i suoi genitori. Noi non ne siamo gelosi, non abbiamo nessun timore e il bambino percepisce questa tranquillità, non gli diamo “istruzioni” su che cosa dire o fare, né interrogatori su quello che è stato fatto o detto. Dopo qualche mese che il piccolo era con noi abbiamo anche conosciuto la nonna, una bella signora, molto gentile e dignitosa, ovviamente ferita da quello che era successo nella vita del bambino, ma sempre gentile ed estremamente disponibile con noi. Tuttora ha un bel rapporto con il nipote, si vogliono bene, si vedono e si sentono spesso, lei ha sempre cercato di colmare il vuoto affettivo che il bimbo ha provato; ricordo quando mi chiese se sentirmi chiamare mamma da lui mi emozionava, le risposi che io mi sento la sua mamma e ciò mi sembra normale.
Ci siamo commossi molto la prima volta che, arrivando sotto casa, ha detto «finalmente a casa mia!», e quando all’asilo ha preparato il regalino di Natale per i suoi genitori, pensavo lo portasse all’incontro nello spazio famiglia e, invece, lo ha portato in casa nostra e ha detto «questo l’ho fatto per voi!».
Quando abbiamo annunciato a parenti e amici che saremmo diventati nuovamente genitori, tutti hanno reagito ricordandoci l’età non proprio giovanissima, il rischio insito nel mettersi in gioco nuovamente e il dolore che ci avrebbe causato il rientro del bambino in famiglia. Oggi, invece, con l’affetto così palese che viceversa intercorre tra noi, più nessuno si mette a discutere sull’opportunità di quello che è stato, e quando ci viene prospettata la possibilità che il bambino un domani ci lasci per tornare dai genitori, rispondiamo sempre dicendo che anche lui, come tutti i figli, percorrerà la sua vita, perché l’amore è un legame ma non una catena. Il fatto di averlo aiutato a crescere, ad andare avanti con le sue gambe sarà stato, proprio come con i figli biologici, un grande successo.
In questi giorni di grandi polemiche sulle adozioni, personalmente penso che si dovrebbe spingere di più sugli affidi: nessun figlio, neanche quello adottato, diventa nostro e a diciotto anni andrà dove la sua storia lo porterà. Stiamo comunque parlando di bambini con vissuti difficili, che, altrimenti sarebbero con la propria famiglia, per cui in realtà il ritorno a casa è spesso improbabile, talvolta escluso.
La burocrazia degli affidi, molto più semplice e rapida rispetto all’adozione, la sua accuratezza e l’assistenza post affido, rendono questo istituto uno strumento molto valido e tempestivo, che può intervenire prima che i minori abbiano subito danni importanti.
Noi possiamo solo dire di essere felici di aver fatto questa scelta, non tanto o non solo per quello che abbiamo potuto fare per lui, ma per quello che lui, senza saperlo, ogni giorno ci regala.
Elisabetta, casalinga genovese, 48 anni, mamma di 3 figli
*la storia di Elisabetta è stata raccolta da Bruna Taravello