Undici anni di lavori, per un milione di spesa: oggi i cantieri del Centro di Documentazione della Benedicta sono fermi e abbandonati al degrado. Uno scempio alla Memoria per uno dei luoghi simbolo della Resistenza, genovese e non solo
«Guarda queste rovine, cittadino d’Italia, sono il dono della tirannide straniera e domestica». Un invito e al contempo, oggi, un monito. Con queste parole sono accolti al Sacrario della Benedicta coloro i quali, con intenzione o per caso, raggiungono uno dei posti simbolo della Resistenza, genovese e non solo. Tutto attorno muri spezzati, rovine, macerie: un fermo immagine che testimonia il massacro sofferto da decine di giovani trucidati dalle truppe nazifasciste nel 1944. Un tricolore scolorito e a brandelli sovrasta tristemente l’area; se si percorrono pochi metri, un altro scempio prende la scena: ecco lo scheletro di cemento del Centro di Documentazione, figlio mai nato di un cantiere aperto da quasi undici anni, oggi in stato di abbandono. Una storia da un milione di euro.
A pochi giorni dalla consueta commemorazione, che cade il 9 di aprile, abbiamo documentato lo stato dei lavori, provando a ricostruire l’iter burocratico di questo “mostro”, la cui incompiutezza stona con la sacralità del luogo e della storia che avrebbe dovuto presidiare.
Incastonato tra le montagne dell’Apennino Ligure, all’interno del parco naturale delle Capanne di Marcarolo, sorge il Sacrario della ‘Benedicta’, dedicato a 147 patrioti antifascisti che, in questo antico convento trasformato in cascinale, persero la vita combattendo per la libertà. Un luogo divenuto da subito “sacro” per i cittadini del genovesato, intriso del sangue dei suoi figli: solo nel 1999 viene deciso un processo di valorizzazione e recupero del sito archeologico costituito dai ruderi della struttura fatta brillare dai nazifascisti, articolato in lotti finanziati dalla Regione Piemonte e dalla Provincia di Alessandria, la quale ne ha gestito la progettazione e la realizzazione, in stretta collaborazione con l’Associazione “Memoria della Benedicta”.
Al termine di questi lavori, che hanno rinnovato i luoghi della strage rendendoli accessibili al pubblico, preservandoli da ulteriori deperimenti, nel 2006 Regione Piemonte autorizza con una legge regionale la spesa complessiva di 750.000 euro per la realizzazione di un centro di documentazione “nel quale conservare e valorizzare le testimonianze e il materiale d’archivio relativi alla guerra e alla resistenza nell’Appennino Ligure-Piemontese” come riporta la suddetta legge; ad oggi, nonostante i fondi stanziati, di questo centro ci sono poche tracce. Il prossimo 9 aprile si terrà l’annuale commemorazione per i martiri e, anche per quest’anno, i lavori non saranno conclusi in tempo.
«Il centro di documentazione è avviato da molti anni – racconta Gian Pietro Armano, Presidente dell’associazione “Memoria della Benedicta” – ma a causa di una serie di difficoltà finanziarie e di altro genere i lavori sono stati sospesi. La prima delle due ditte a cui erano stati assegnati i lavori è fallita, mentre la seconda ha avuto dei problemi e così la Regione ha bloccato i lavori. Adesso la Regione Piemonte e la Provincia di Alessandria, che hanno a carico la costruzione del centro, pare abbiano risolto queste difficoltà e quanto prima riprenderanno le operazioni per ultimare il centro. Noi dell’associazione Memoria della Benedicta dovremmo gestire il centro e speriamo che entro un mese gli operai tornino a costruire».
La situazione però non è chiara in quanto i 750.000 euro stanziati dalla Regione, e integrati con altri 250.000 durante gli anni successivi, sono una cifra “importante”: «In fase di costruzione ci sono stati degli interventi che non erano previsti dal progetto iniziale – prosegue Don Armano – Per esempio per dare solidità alle fondamenta si è dovuto fare un lavoro di palificazione per evitare che fosse danneggiato quello che resta della cascina Benedicta, inoltre sono emersi altri problemi e questo ha fatto lievitare i costi. Adesso la Regione ha stanziato un ulteriore finanziamento e la Provincia coprirà la parte mancante per poter arrivare alla realizzazione finale di quest’opera. Noi speriamo che il prossimo anno sia finito tutto».
Una speranza che sicuramente è di tutti, anche se le condizioni del cantiere non fanno ben sperare, a partire dalle recinzioni, interrotte in più punti; spariti i cartelli con la gerenza del cantiere, obbligatori per legge, all’esterno sono sparsi accumuli di macerie e materiale da lavori, i locali interni sono in balia delle infiltrazioni e degli allagamenti, alcuni sono interamente occupati da detriti e spazzatura di vario genere; la ruggine e i muschi regnano sovrani; all’esterno le istallazioni artistiche dedicate ai fatti storici sono abbandonate a loro stesse, aggiungendo una nota tetra ad uno scenario desolante. Uno “spettacolo” decisamente poco edificante, che stride con l’atmosfera senza dubbio mistica dell’intera area, che comprende inoltre il muro delle esecuzioni e le fosse comuni dove furono sepolti i cadaveri dei partigiani.
Il santuario della Benedicta è indissolubilmente legato alla città di Genova; in questo luogo era stata posta l’intendenza della 3° Brigata d’assalto Garibaldi “Liguria” e molti dei ragazzi che vennero assassinati e deportati provenivano dalle valli del genovesato e dai quartieri della città. Sfogliando l’elenco dei caduti è facile trovare nomi di giovani provenienti da alcuni dei quartieri come Sampierdarena, Rivarolo, Pegli e Pontedecimo e proprio da qui, nelle ore successive all’eccidio, partirono a piedi molti volontari per raggiungere la Benedicta, recuperare i corpi e dargli degna sepoltura. «Da Pontedecimo partirono in molti per recuperare i corpi – racconta Don Armano – la Croce Verde, ad esempio, fu molto attiva durante questo episodio. Tuttavia anche dalla parte di Alessandria ci furono dei volontari che salirono fino alla Benedicta dopo l’eccidio per ‘igienizzare’ la situazione. Si correva il rischio, infatti, che la decomposizione dei cadaveri gettati nelle fosse dai nazi-fascisti inquinasse il torrente che porta l’acqua ai laghi artificiali del Gorzente, invasi che approvvigionano la città di Genova.
Durante la primavera del 1944 le forze partigiane presenti in questa zona contavano circa mille uomini: per questo motivo i tedeschi optarono per un rastrellamento massiccio, mirante a distruggere tutte le formazioni attestate intorno alla Benedicta, al fine di assicurarsi un passaggio per una eventuale ritirata in caso di sbarco alleato. Il 7 aprile 1944 ingenti forze nazifasciste circondarono la Benedicta e le altre cascine dove erano dislocati i partigiani: i giovani antifascisti, spesso impossibilitati a difendersi per la mancanza di un adeguato armamento e di esperienza militare, non riuscirono a rompere l’accerchiamento. In diverse fasi i nazifascisti fucilarono 147 partigiani mentre altri caddero in combattimento. Alcune decine finite nelle maglie dei rastrellamenti, in qualità di renitenti alla leva obbligatoria predisposta dalla Repubblica Sociale furono tradotti alla Casa dello Studente, dove furono imprigionati e torturati; molti di loro saranno poi fucilati, il 19 maggio, al Passo del Turchino, mentre altri 400 furono arrestati con l’inganno di un amnistia e avviati alla deportazione (quasi tutti a Mauthausen). Durante il viaggio 200 di loro riuscirono fortunosamente a fuggire, mentre i loro compagni lasciarono la vita nei campi di concentramento.
Il rastrellamento della Benedicta, che nelle intenzioni dei nazisti e dei fascisti avrebbe dovuto fare terra bruciata intorno alla resistenza, non riuscì tuttavia a piegare lo spirito popolare. Anzi, proprio dalle ceneri della Benedicta il movimento partigiano, dopo aver avviato una riflessione sugli errori compiuti, riuscì a riprendere vigore e incominciare l’inesorabile riscossa.
Una lapide, eretta dove furono ritrovate le fosse comuni che accolsero i corpi senza vita dei fucilati così recita: «Qui il 7 aprile 1944 caddero trucidati e vennero nascosti giovani partigiani da fascisti d’Italia e nazisti di Germania, fecero loro scavare la fossa poi li uccisero a gruppi di cinque. Volevano un’Italia migliore». Sarebbe necessario maggiore rispetto per questi luoghi, custodi di una memoria che deve essere presidiata, affinché i sacrifici del passato possano essere conosciuti e onorati degnamente.
Gianluca Pedemonte
Nicola Giordanella