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Alla ricerca di una vecchia casa in periferia, il teatro della tragedia che vide protagonista una famiglia durante la follia nazista. Il racconto del viaggio nella "Grande Berlino"
La Sprea scorreva torbida come il suo passato, mossa da un vento fresco di fine estate, rifletteva i bagliori di un pigro sole settembrino, tuttavia Berlino aveva il solito sguardo severo e austero. Ascoltavo People are strange dei “The Doors” seduto sulle rive del fiume mangiando una pizza presa dentro un forno gestito da un marocchino trapiantato in Germania, parlava con un buffo accento partenopeo e fumava continuamente tra un’infornata e l’altra. La sua pasta morbida e alta profumava di pomodoro fresco e basilico, la mozzarella filante e un filo d’olio d’oliva completavano l’opera, il risultato è stato una delle pizze più buone mai mangiate in vita mia. Gli ho chiesto alcune informazioni stradali ma non conosceva altro che la strada dal suo modesto appartamento al lavoro, il resto non gli interessava, con il ricavato della sua attività sarebbe ritornato a vivere in Marocco con i figli a costruire una fattoria e coltivare i campi.
La mattina, nel famosissimo zoo, guardando l’orso Knut che si annoiava nel suo spazio, uno sbuffo di vento ha trasportato fin sotto i miei piedi, il volantino di una mostra fotografica privata esposta all’interno di una vecchia casa. Il figlio del fotografo aveva ritrovato alcuni scatti risalenti alla seconda guerra mondiale, ritraevano famiglie ebree e scene di deportazione, nascondigli inaspettati e oggetti ritrovati negli appartamenti. La mostra si trovava a Charlottenburg, un elegante quartiere, un tempo piccolo centro abitato unificato in seguito nella grande Berlino, non ho perso tempo e sono salito sulla monorotaia che oltre alla comodità offre una splendida vista sopraelevata della città.
Sceso ad Alexanderplatz, la principale piazza del centro, mi sono diretto nella bellissima stazione della metro, giusto il tempo di abbottonare il parka che un uomo rabbuiato in viso si avvicina lentamente e mi chiede una sigaretta, non parlava bene l’inglese ma si era fatto capire benissimo a gesti. Indossava un pastrano blu molto trasandato, una camicia a righe bianche e azzurre, scarpe di cuoio bucate, barba trascurata da settimane e capelli lunghi che uscivano da sotto il berretto di lana. L’abbigliamento, nonostante l’usura era di pregevole fattura, i suoi modi gentili facevano emergere un’antica eleganza ancora inconsciamente presente dentro di lui. Avevo del tabacco con me, l’ho preso e ho girato una sigaretta, potevo offrire solo quello, lui mi ha ringraziato con un inchino e un cenno della testa. Gli ho parlato di Charlottenburg e i suoi occhi si sono subito illuminati, quasi commossi, la sua vecchia casa era li, un tempo aveva una vita normale, una famiglia e un lavoro, adesso doveva scroccare sigarette ai passanti. La sua maschera piano piano si stava sciogliendo e ne era consapevole, i ricordi più aspri tornavano a galla e improvvisamente la sua espressione si è fatta cupa, con la mano mi ha salutato e voltandosi si è allontanato lasciando al suo posto solo una scia di fumo.
Camminare per Berlino è come immergersi dentro le pagine di un libro di storia, un film del dopoguerra o un racconto dei nonni, in ogni angolo si celebra la caduta del muro o si ricorda la triste vicenda dell’olocausto, una pagina che tutti vogliono dimenticare e allo stesso tempo ricordare.
Giunto a Charlottenburg, sono entrato in una birreria per chiedere informazioni, il barman mi ha messo davanti a una birra senza chiedere nulla, ho pagato due euro per il disturbo e mi sono avvicinato per chiedere informazioni. Il suo aspetto era poco rassicurante, sembrava avere un occhio di vetro e gli mancava una falange, tuttavia mi sono rivolto a lui per chiedere lumi sulla mostra e ho scoperto una persona gentile. Con il suo dito mozzo mi ha indicato la via, dovevo svoltare alla destra di una grande casa coperta da edera e percorrere il vialetto alla fine del quale avrei trovato un cancello.
Arrivato davanti, mi sono guardato intorno ma non c’era nessuno, il cancello era semiaperto e dietro di esso un giardino lo separava dalla casa. Non ricordo cosa recitasse il cartello piantato nell’erba, faceva riferimento alla mostra di fotografia, non conoscevo il tedesco ma avevo intuito di essere nel posto giusto. Era una costruzione molto datata, la sua architettura, poco uniforme con quella del quartiere, ricordava una casa dei fantasmi vista nei film horror, aveva il profilo di una chiesa sconsacrata e le sue pareti grigiastre erano inquietanti. Le grandi finestre lasciavano intravedere del movimento all’interno, poche fievoli luci diventavano sempre più intense a mano a mano che il sole calava, il vento aveva spazzato via ogni nuvola e Venere cominciava a brillare solitaria.
La porta era aperta, ho bussato timidamente ma troppo piano per attirare l’attenzione di qualcuno, ho atteso qualche secondo prima di colpire con maggiore decisione e sono entrato. La pianta dell’atrio era pentagonale e a ogni lato corrispondeva una porta o una scala, una di queste conduceva al piano superiore, il suo pianerottolo era illuminato e mi sono avvicinato per capire se c’era qualcuno. Un cigolio sinistro e una voce profonda dietro le spalle mi hanno fatto balzare in aria –Guten Abden– disse qualcuno enfatizzato dall’eco della stanza. Non vedevo nessuno dietro di me, volevo scappare dalla porta ancora aperta, poi ho preso coraggio e mi sono avvicinato nella direzione da cui proveniva la voce. Nella penombra ho visto qualcuno muoversi, ondeggiava lentamente verso di me, il passo felpato lasciava intatto quel silenzio ovattato fino al click dell’interruttore della luce, poi da un lato della stanza è apparso un nano.
Aveva un sorriso simpatico e compiaciuto per il mio spavento, avvicinandosi mi tende la mano destra e si presenta, il suo nome era Jimi e lavorava per il padrone di casa. Mi ha chiesto il motivo che mi aveva spinto a cercare quella mostra e come mai ero arrivato a quell’ora, la maggior parte dei visitatori era andata via, le luci soffuse facevano intendere che erano in chiusura, tuttavia avrebbe fatto un’eccezione per me. Ho seguito Jimi al piano di sopra, il suo passo era lento ma sapeva bene come muoversi nella casa. Ogni stanza esponeva le fotografie dell’epoca, ritratti di famiglia, vestiti e cimeli di ogni genere, cappelli, giacche, libri e quaderni.
Jimi raccontava la storia della famiglia nascosta in quella casa, nulla era valso a salvarli, neanche il nascondiglio più improbabile. Nella stanza da letto Jimi mi ha chiesto di stare fermo e di guardare cosa avrebbe fatto, io curioso non mi sono mosso e ho aspettato. Che fosse un tipo strano lo avevo intuito, ma quando l’ho visto entrare in un armadio mi sono chiesto se era scemo lui o se lo ero io immobile nel mezzo di una stanza con un nano dentro un armadio. La sua voce riecheggiava nella stanza, quando mi ha chiesto di aprire l’anta e di farlo uscire mi sono avvicinato all’armadio e ho impugnato il pomello, poi ho aperto in maniera decisa, ma dentro c’era solo una vecchia giacca sgualcita. Guardando bene ho visto che la parte dietro dell’armadio si muoveva, così ho spinto anche quella e con mio stupore ho visto Jimi, dietro di lui una scala di legno che portava a un piano superiore. Quell’incredibile passaggio nascondeva una piccola mansarda, era arredata da quattro materassi e un tavolino di legno, nulla era stato rimosso dal giorno in cui erano stati scoperti.
Una sensazione di angoscia mi ha pervaso l’anima e dopo aver visto le altre stanze e le ultime fotografie ho ringraziato Jimi e sono uscito nel buio della sera.
La luna mi teneva compagnia mentre scalciavo le foglie gialle cadute dagli alberi nel viale del mio hotel, riflettevo su ciò che avevo visto, molte persone conoscono solo le storie più famose legate all’olocausto, tante altre sono raccontate da chi, come Jimi e il suo padrone, ha avuto il coraggio di mostrare il lato oscuro dell’essere umano.
Diego Arbore